Lasciata brutalmente per mail da un signore che la liquidava esortandola a “prendersi cura di sé”, l’artista francese Sophie Calle ha chiesto a centosette altre donne, più giovani e più vecchie, più e meno amiche, di comprendere per lei che non ne era in grado, di parlare al suo posto, rifacendo quel messaggio come meglio lo suggeriva la professione di ognuna di loro. Da quelle lettere Calle ha creato un’opera, esposta al pubblico alla Biennale di Venezia del 2007: Prenez soin de vous il titolo. L’invito offensivo era stato cambiato di segno, reso corale e rivolto amicalmente a noi tutte. (Scopri di più su: DoppioZero.com)
Sulla presa di parola pubblica da parte delle donne cade uno dei grandi interdetti della nostra cultura. Si comincia con Telemaco che zittisce Penelope: torna nei tuoi appartamenti madre, qui si fanno discorsi da uomini, racconta Omero. Oggi si chiama mansplaining il modo condiscendente e paternalistico con cui un uomo ci spiega qualcosa senza prenderci sul serio. La sostanza è la medesima. #metoo sarebbe finalmente l’occasione per far uscire la nostra parola dai tinelli, dalla posta del cuore, dal salottino dello psicologo, dal cerchio delle amiche in cui viene per lo più spesa, facendo diventare questione pubblica quella prevaricazione sessuale che moltissime di noi hanno conosciuto spesso tacendola, qualche volta confidandola, senza che però mai la privatezza dello sfogo traducesse l’offesa da fatto personale in questione collettiva. Il discorso sulle molestie si riduce infatti tradizionalmente alla casistica delle rivelazioni individuali.

Il numero di post e tweet ha reso la denuncia dei soprusi subiti da donne una denuncia di genere che dovrebbe aiutare a riscattare la biografia di ciascuna di noi, guadagnando tutte in autorevolezza. Che stia accadendo proprio questo è però dubbio. Molte delle riflessioni in corso riguardano il carattere prevaricatore di orribili Barbablù: i clichés sono rispettati, la trama è abbastanza nuova. Un ottimo soggetto per un’altra produzione hollywoodiana.

Sotto #metoo sono raccolte le accuse pubbliche di molestie fisiche o psicologiche legate a comportamenti sessuali che vanno dalle avances allo stupro. La ragione di questo discutibile amalgama è che tutti, in scala diversa, mettono la donna nella condizione di essere colei che subisce. Di essere vittima. Questa debolezza è il presupposto da cui partono i corsi contro il sexual harassment che le università americane rendono obbligatori. La loro prima parte è spesso di fenomenologia applicata: è vivamente sconsigliato a un uomo guardare negli occhi chicchessia, ma soprattutto una donna, ed è anche molto sconveniente guardarla dal petto in giù. Da preferire la zona guancia-spalla, garante della pudicizia della conversazione. Segue una parte sulla presa di coscienza dell’abuso: la molestia conta, ma conta di più il tuo stato d’animo. Se tu hai paura, vuol dire che l’altro te l'ha trasmessa. Che il tuo sentire sia compreso istituzionalmente sembra la risposta più degna alla litania dei “Cosa vuoi che sia mai, non ti ha mica fatto niente di speciale!”, prima complice del sopruso. Viene infatti riconosciuto il diritto di temere la prevaricazione che il buon senso ti ha abituato a prevedere, a prescindere dalle intenzioni di chi la eserciterebbe. È però esattamente questa la ragione per cui tale comprensione è più infida di quel che non sembri a prima vista a una schiera di potenziali soccombenti: riconoscere il mio diritto alla paura implica riconoscere che la mia prima condizione di fronte a un uomo è quella di vittima possibile. Peraltro, le ragioni della paura hanno fatto anch’esse morti e feriti: molti erano terrorizzati dalle streghe, che notoriamente non esistono e ciò nonostante sono state mandate al rogo sul serio, e sempre dopo regolare processo.

L’istituzione universitaria si tutela insomma legalmente potendo dire che fa tutto quel che è in suo potere per difendere le componenti apparentemente deboli del suo corpo accademico, le donne, perfino educandole. Avrei preferito facesse presente che non occorre precipitarsi dal superiore a confidare imbarazzi, ma comunicare che si può essere ironiche, imprevedibili e soprattutto intelligenti prima di essere fragili. Prendere la parola, appunto; non: cercare tutela. E però, questa stessa istituzione che mi inchioda al mio stato di minorità proprio nel momento in cui mi vuole difendere, termina il suo corso mostrando l’immagine di una docente in piedi che appoggia in modo paternalistico una mano sulla spalla di un ragazzo, seduto, che le dà la schiena lavorando chino al computer. Una nota a piè di pagina spiega che con l’aumento del numero di donne ai vertici della scala gerarchica è aumentato il numero di denunce di giovani uomini, e di più se ne aspettano negli anni a venire. Me too, dunque, perché la questione non è il genere del potere ma il codice di questo potere, che non è essenzialmente maschile ma nasce maschile perché – come Françoise Héritier ha mostrato – si è configurato storicamente per contenere quello vitale della procreazione, tutt’ora al centro di contrastanti ambizioni di controllo come ha ben descritto Emmanuel Betta nel suo L’altra genesi. Storia della fecondazione artificiale (Carocci, 2012): “sul mio corpo faccio da sola perché posso”, “sul tuo corpo intervengo io perché so”.

Il machismo come forma di potere che si esprime attraverso l’assoggettamento dei corpi è agito democraticamente dalle une come dagli altri, e coerentemente molto di più sui poveri, i più sottomessi di tutti, come sono le donne africane che tentano di attraversare il Mediterraneo e, quando possono, prendono la pillola anticoncezionale sapendo che verranno violentate. Il sessismo e il sopruso fisico sono però un sintomo e un modo delle relazioni di potere, non ne sono il motore, a meno che non vogliamo giustificarli come un fatto naturale, e rischiano di fornire a queste seconde una maschera efficace per quanto paradossale. È allora necessario lasciare stare il sesso, e parlare del potere. Lasciare stare la morale sessuale paternalistica e incombente, riconoscere che una donna che ammicca non se la cerca affatto e sta senz’altro facendo delle avances come quel signore sconosciuto che mi guarda e offre un caffè per il piacere di farlo, saluta e se ne va. Se anche mi disturbasse, non confonderei la mia confort zone con la mia inviolabilità di persona. Meglio tenerci stretto il piacere della seduzione, incluse le sue manipolazioni, e denunciare l’abuso di potere.

Avere una discussione al contempo più mite e più radicale. Non è vero che lui ti soverchia perché – come stiamo leggendo di nuovo – tu sembri disponibile o lui è un porco, perché alle donne in fondo piace essere vinte, perché l’uomo non deve chiedere mai. Lui ci prova perché pensa di poterlo fare. E lei pure. È perché si tratta di potere che quelle donne che molto hanno fatto per non essere seconde e gareggiare alla pari con colleghi maschi oggi si scagliano irritate contro quelle che “in fondo potevano non darla e cambiare lavoro”: si sentono riportate alla loro condizione originaria di nate per perdere, di deboli, di persone destinate a essere forse straordinarie in privato ma mai in pubblico. La grande donna dietro il grande uomo, al più.

Nell’attuale e liberatoria presa di parola pudica, per cui si può dire anch’io senza soffermarsi per forza sul cosa, il come e il quando, non è ancora in gioco una presa di parola pubblica. Attraverso il coro di denunce di donne (note) contro uomini (in vista), che postano su facebook e twitter prima o al posto di andare a un più modesto commissariato di polizia affinché un processo venga istruito e un colpevole individuato, si avanza innanzitutto una richiesta di riconoscimento. D’altra parte, per le prove è ormai tardi. È la rivincita coram populo per una violenza privata. Reclamare l’abuso è qualcosa, ma è poco. Serve a superare il trauma, forse a incidere nel costume, ma non penso basti a cambiare un tipo di cultura. Si parla a molti, ma si parla ancora da sole per attestare quel che si è state, mentre l’accusato, innocente o colpevole che sia – e la differenza resta dirimente – subisce un’onta globale. Rimuovere il nome di registi da locandine di film realizzati è un gesto di antica iconoclastia. È vendetta. Soprattutto: la ragazza anonima stuprata da un illustre signor nessuno ne ricaverà sostegno, o prevarrà il senso di esclusione dal giro dei vip? Non lo so. La presa di parola attraverso #metoo rivela il sistema del potere attuale che rinvia i deboli alla posizione di vittima, e lì li lascia.

Anch’io cosa, dunque? Anch’io vittima come te? Anch’io potente come te? O anch’io capace? Mi si dice che io pure, scalata la gerarchia, rotto il soffitto di cristallo, entrata nel club – secondo le metafore vigenti –, sono destinata a esercitare la sopraffazione. È il potere che ti esclude, è il potere che ti porta. Resto insomma vittima di quella stessa violenza, esercitandola. E se io, però, non volessi? In Women & Power. A Manifesto (Profile Books, 2017), Mary Beard, una delle più autorevoli classiciste del nostro tempo, ripercorre tra gli altri il mito di Medea e afferma che se le donne non sono percepite né si percepiscono come pienamente integrate nella struttura del potere, è il potere che bisogna ridefinire, non le donne. L’idea che i potenti siano i leader politici, gli amministratori delegati, i capitani di industria, rappresenta una concezione molto ristretta di che cosa il potere sia, e lo lega necessariamente alla notorietà e al prestigio pubblico che dipende dal possederlo: il potere è un patrimonio di cui pochi dispongono e che pochi detengono. È selettivo ed escludente. Cosa succede se invece lo pensiamo come svincolato dal carisma, come collaborativo, come dipendente da quello di chi ne è incluso e non solo di chi guida, come una competenza e non come un attributo? La capacità di produrre effetti nel mondo, di incidere e fare la differenza, unito al diritto di essere prese sul serio.

È questo il potere che molte donne sentono di non avere, e vogliono. Quando non partecipiamo alla lotta agonistica, non è per fare la calza con animo rinunciatario, ma perché non troviamo necessariamente essenziale solo guidare un governo – le deformazioni del cui esercizio non ci è per altro stato possibile cambiare –. Certo è più facile dirlo ora, quando le condizioni di accesso sono ampiamente paritarie, e comunque più paritarie adesso che in un qualsiasi altro momento della storia dell’Occidente. Resta però che abbiamo anche altre, non minori, ambizioni e un diverso senso del fallimento. Conosciamo poi la debolezza del patriarcato per averlo sostenuto tanto a lungo: quel potere è certo che lo devi avere, ma più ancora te lo devono riconoscere e perciò, come la commedia mostra da sempre, impersonato da uomini o donne che esso sia, è fragile. Malgrado questo, e per quanto nel corso lungo della storia si sia cercato di ripartire i centri di comando a costo di guerre e rivoluzioni, esso è immodificabile nella sua forma. La presa di parola corale di queste settimane potrà portare, e sarebbe bene lo facesse, a più precise prassi di selezione del personale – che di attrici o dipendenti statali si tratti – e a più corretti codici di comportamento, e farà forse, finalmente, capire che no è no – non qui, non ora, non ancora, comunque no. Non è più il tempo della virtuosa Lucrezia violentata da Sesto Tarquinio, cui venne concesso il diritto di parola solo per denunciarlo e annunciare il proprio suicidio. Non cambierà però la forma della relazione di potere che attraverso il sopruso fisico si esprime.

Il vantaggio della pratica del potere di cui sentiamo la mancanza è di essere inclusiva – delle vecchie minoranze come delle nuove e molto maschili –, basata sulla delega e non sulla semplice rappresentanza, rispettosa nel merito e non solo del merito, con un senso lungo del tempo. Maria Montessori, la cui grande ambizione era fare il medico, non poté seguire le lezioni di anatomia perché includevano la vista delle pudenda di cadaveri maschili. Le riservarono lo studio della parte alta del corpo, che per accidente include il cervello. Divenne una dei più straordinari neuropsichiatri del suo tempo. Potere di agire, non di essere; di fare della propria biografia storia. Conosco donne e uomini che lo praticano, che lo ignorano, che lo ibridano. Prenons soin de nous.

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