Si fa presto a dire piattaforma. La parola è ormai una delle buzzword del momento; ed era ora visto che da tempo le aziende con cui interagiamo per gran parte della giornata sono piattaforme, e lo saranno sempre di più in futuro poiché, secondo diversi studi, più di un unicorno su due in tutto il mondo assume già questo modello. (Scopri di più su: Collaboriamo.org)
  • Marta Mainieri
Non tutte le piattaforme, però, sono uguali, non solo per l’impatto che generano, ma anche per mission e design. Quello che però tutte, indistintamente, hanno in comune è la predisposizione, intrinseca al modello stesso, ad aggregare comunità fuori dal proprio sistema e a connetterle per creare valore e opportunità. Utile per le start up ma anche per imprese, profit e no profit, negozi e spazi, pubbliche amministrazioni.

Ma, andiamo con ordine. Che cos’è una piattaforma? Di definizioni ce ne sono diverse, alcune si trovano qui e qui. Per farla semplice però possiamo dire che una piattaforma non è un sito web e neanche un app come qualcuno scrive, ma è un nuovo modello di fare impresa che non lavora più per immettere prodotti sul mercato o per offrire servizi, ma per connettere persone al fine di farle comunicare, scambiare, condividere, lavorare e così via. Sono piattaforme Airbnb, Blablacar ma anche Amazon, Facebook, Whatsapp, ebay, Apple e Google, ma anche alcuni negozi, e servizi più propriamente sociali. Esperienze e storie molto diverse fra loro ma che possono trovare sintesi nel disegno del modello che, tuttavia, si diversifica in almeno quattro tipologie, a seconda degli obiettivi e delle caratteristiche.

  1. Piattaforme che aggregano domanda e offerta facilitando la transazione fra utenti e risorse (transaction platforms). Da Airbnb a Blablacar sono le piattaforme tipiche dell’economia collaborativa ma anche della gig o della on demand – economy. Sono adatte per chi vuole disegnare un servizio per mettere in contatto due sole comunità di utenti che possono essere anche interscambiabili creando i cosiddetti prosumer. Come anche Lulu di quartiere che sebbene su scala territoriale mette in contatto chi chiede un lavoretto e chi è disposto a farlo. Queste piattaforme si rivolgono principalmente ai cittadini (modello b2c) ma talvolta anche alle aziende come per esempio Toolssharing che mette in contatto imprese per condividere macchinari pesanti. Il vantaggio per chi partecipa è soprattutto economico ma spesso anche relazionale e in alcuni casi ambientale e il modello di business più comune è generalmente la percentuale sul transato.
  2. Piattaforme che agiscono da hub connettono più community di una stessa filiera (aggregate platforms). Queste piattaforme aggregano professionisti di una stessa filiera (Houzz), o comunità di interesse intorno al bisogno (come nel caso di Angellist). Presentano una complessità maggiore rispetto alle piattaforme transazionali perché l’azienda che promuove il servizio deve connettere e gestire più comunità. Il vantaggio per chi partecipa però è alto, e risiede nell’ottenere visibilità verso un pubblico più ampio, nella possibilità di fare rete e di conseguenza, quasi sempre sfocia in un beneficio economico (sul fronte non digitale, in un certo senso, anche i Community hub potrebbero rientrare in questa tipologia). Il modello di business prevalente di queste piattaforme è la vendita di servizi premium. Sono piattaforme particolarmente adatte a favorire l’incontro fra aziende, cooperative, associazioni.
  3. Piattaforme che facilitano le interazioni sociali e quindi la comunicazione. Sono le piattaforme dei grandi social network come Facebook, Twitter, youTube etc. Le loro caratteristiche possono essere sfruttate anche per progettare piattaforme che uniscono persone sole (es. anziani con volontari come un tempo faceva la piattaforma e-circle), o anche appassionati (Fubles). Il vantaggio per chi partecipa è soprattutto l’ampliamento della propria rete sociale, e, nei casi più noti, la visibilità. Sono piattaforme in cui l’azienda promotrice deve favorire non la transazione ma la comunicazione, per cui prevalgono strumenti come la Timeline, like, followers etc. Il modello di business di queste piattaforme è principalmente la pubblicità.
  4. Piattaforme che abilitano utenti a sviluppare un ecosistema che supporta contenuti. Sono le piattaforme che creano un sistema per cui gli utenti contribuiscono alla crescita della piattaforma attraverso contenuti (Wikipedia), app (Apple o Google store), e, in generale, tutte quelle piattaforme tecnologiche che mettono a disposizione le loro API agli sviluppatori per costruire nuovi servizi. I vantaggi per chi partecipa al sistema è economico e la visibilità e il modello di business delle piattaforme sono, il più delle volte, la percentuale sul transato e la vendita delle licenze.
La parola piattaforma, dunque, non indica più solamente una tipologia di servizio ma diversi. Questo permette di avere a disposizione più modelli per cambiare, rinnovare i nostri servizi, ma anche le filiere, e il nostro modo di stare insieme. Non solo per il mondo profit ma anche per il non profit. Le opportunità per applicare questi modelli nel terzo settore sono moltissime ma per farlo – bene – bisogna togliersi le lenti ideologiche e studiare a fondo il modello Facebook, Amazon, Airbnb e così via. Solo così si può capire perché queste piattaforme si sono affermate così in fretta, quali sono gli strumenti che bisogna utilizzare per garantire lo standard di servizio a cui siamo abituati, quale qualità dell’esperienza utente bisogna offrire, e come riuscire a replicare questo modello fuori dalle logiche tipiche del mercato. Il rischio, altrimenti, è costruire piattaforme e fare esperimenti che poi difficilmente funzionano o aspettare che modelli internazionali arrivino ad assicurarci quei servizi che non siamo riusciti a rinnovare.

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