«L'unico elemento veramente positivo - spiega il presidente delle Acli Andrea Olivero - è il fatto che per la prima volta dopo anni l'Europa ha preso una posizione comune, candidandosi finalmente a guidare la politica dell'immigrazione, che finora ha invece conosciuto una dimensione esclusivamente nazionale e intergovernativa. In questo senso, malgrado non siamo d'accordo con molte delle indicazione contenute nella Direttiva, almeno vengono posti dei limiti - per la detenzione e l'allontanamento, ad esempio - che non potranno essere superati dalle normative dei Paesi comunitari, come invece oggi accade».
Paiono eccessivi alle Acli i 18 mesi come tetto per la detenzione all'interno dei centri di permanenza. Così come non piace l'espulsione seguita da fino a cinque anni di allontanamento, di impossibilità di ritorno nel continente europeo. Perplessità anche sulle modalità stesse della detenzione, con particolare riferimento alla possibilità delle persone detenute di ricevere informazioni su come entrare correttamente in Europa e su come chiedere asilo. «Dobbiamo assicurare l'asilo politico a tutti i cittadini che ne hanno diritto» afferma Olivero.
Ma è la normativa nel suo complesso che non convince le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, «perché tende anch'essa - spiega il presidente Olivero -, come le nuove norme che si vogliono introdurre in Italia, a sottolineare gli elementi relativi alla insicurezza e alla criminalizzazione dell'immigrato, piuttosto che la necessità di dare accoglienza a quanti disperati giungono sulle nostre coste». «Noi non possiamo pensare che l'Europa chiuda le sue porte o non valuti l'assistenza dei disperati come un dovere per l'insieme del continente».
D'accordo quindi con la regolamentazione del fenomeno, anche ponendo limiti, ma «senza dare l'impressione di una fortezza che si chiude», «senza intenti punitivi». «Ad esempio, la detenzione fino a 18 mesi nei centri di permanenza - spiega Olivero - non è assolutamente utile per l'obiettivo che si prefigge, cioè l'identificazione dello straniero al fine del rimpatrio nel suo paese d'origine. L'identificazione, infatti, quando non avviene nei primi mesi, molto difficilmente avviene in seguito. E risulta allora più una misura punitiva per lo straniero, che utile e necessaria per la sua identificazione». «Sarebbe stata allora molto più utile - conclude - una normativa che andasse ad incentivare il rimpatrio volontario dello straniero irregolare, limitando fortemente il tempo di allontanamento, e assicurando allo straniero la comprensione delle modalità per l'ingresso regolare».