Ma ecco che l'azienda dei fratelli Carlo e Luciano se ne inventa un'altra per conquistare qualche cliente in più e rimpiazzare quelli persi negli ultimi anni. L'ultima trovata è partecipare a " Microcredit Africa Works" un progetto di microcredito in Senegal, per il quale l'azienda ha investito poco più di 11 milioni - manco a dirlo - in comunicazione. E' questa la somma destinata alla campagna lanciata per promuovere l'impegno di Benetton in Senegal a fianco di Birima, società di credito cooperativo fondata dal cantante Youssou N'Dour.
Obiettivo della società africana è quello di erogare piccoli prestiti agli abitanti del Senegal - per ora almeno quelli di Dakar - a interessi contenuti, in modo da favorirne l'occupazione e - secondo il cantante - in qualche modo contrastarne anche la migrazione verso il mondo occidentale. "Il 50% dei clichés sull'Africa sono veri", ha dichiarato recentemente in un'intervista il cantante, spiegando le ragioni e gli scopi del suo progetto. "Ma io vedo anche un'altra immagine dell'Africa, che l'occidente deve ancora vedere. L'immagine di un'Africa positiva".
E se l'immagine dell'Africa è positiva non si può dire altrettanto per i partner italiani del nobile progetto. Se infatti, gli obiettivi e le motivazioni del rappresentante della Birima possono essere degni di lode, e probabilmente costituiranno un valido aiuto alla sua gente, Benetton che obiettivi ha? Sono circa 50 - dei 5 mila totali - i punti vendita dislocati in diversi Paesi africani, ma "l'azienda non ha in programma, per il momento, di ampliare la propria presenza nel continente africano, che riteniamo abbia altri problemi e altre priorità", ha spiegato il responsabile della comunicazione del gruppo Benetton, Federico Sartor. Sembrerebbe un impegno etico e responsabile da parte di un'azienda che - nel 2007 ha chiusi con un fatturato consolidato di 2.085 milioni di euro, e un utile netto di 145 milioni di euro - e che quindi decide di destinare parte dei propri profitti a un progetto di sviluppo sostenibile. Ma qualcosa non convince.
Sarà un caso, ma è proprio di pochi giorni fa la notizia che Benetton - tramite il suo legale argentino - ha chiesto alla giustizia locale la restituzione dei 565 ettari del fondo Santa Rosa e il pagamento dei danni subiti. In questo terreno della Patagonia argentina vive una comunità Mapuche, quella di Santa Rosa Leleque, che ha recuperato il terreno - dopo numerose battaglie legali con il gigante italiano - il 14 febbraio 2007. Una storia di sgomberi da parte degli uni e tentativi di far valere i propri diritti da parte degli altri, che va avanti dal 1991, quando cioè la casa tutta stile e moda italiana acquistò 900 mila ettari di terreno, con tutto quello che c'era sopra, animali, coltivazioni e abitanti compresi nel prezzo.
Approfittando della politica di privatizzazioni - di inizio anni '90 - la patria del Tango divenne fonte di guadagno per molti stranieri. E il processo di concentrazione delle migliori aree del paese in poche mani si è registrato soprattutto tra l'89 e il '99, quando era presidente della Repubblica Carlos Menem. Secondo le ricerche e i dati avuti dalla Federación agraria argentina che hanno portato poi - i giornalisti Andrés Klipphan e Daniel Enz - alla pubblicazione del libro - Terre spa: Cronaca di un paese liquidato - il 10 per cento del paese - dove tra l'altro è concentrato il 90% delle risorse minerarie del paese - è stato svenduto a multimilionari di tutti i continenti. Dallo statunitense Ted Turner, fondatore della Cnn, dalla star di Hollywood Richard Gere al calciatore argentino Gabriel Batistuta.
Ma i principali beneficiari sono stati sicuramente i Benetton che hanno acquistato direttamente - attraverso la loro azienda Edizione Holding - la società Compañía de Tierras Sud Argentino S.A. da tre famiglie locali. Il fine dichiarato quello di rilanciare questa società storica che, pur avendo oltre 100 anni di tradizione alle spalle, in quel momento si trovava in piena decadenza ed si dedicava soprattutto all'allevamento ovino.
Così circa 900 000 ettari diventano dunque proprietà dei fratelli italiani. Ma all'interno non si trovano solo fiumi, laghi, montagne, vallate, strade, sentieri ancestrali ma anche delle persone. E cioè una parte del popolo Mapuche - il "popolo della terra" - uno di quelli che ha resistito alla colonizzazione spagnola e che ora vive tra Cile e Argentina. Persone che hanno sempre praticato la caccia e non per mostrare machismo o per "sport" ma come fonte di sostentamento. Da quando la proprietà di queste terre è passata nelle mani degli spregiudicati imprenditori italiani le attività di questa gente sono state fortemente limitate visto che l'enorme territorio è stato completamente recintato e controllato.
Per questo nell'aprile del 2003 una delle famiglie della comunità di Leleque-Santa Rosa stanca di violenze, intolleranza, usurpazioni, e sentitasi spodestata del diritto di vivere nella propria terra natia decise di riappropriarsi di una parte della grande proprietà di Benetton. Da lì in poi tutta una serie di azioni legali, che hanno visto rimbalzare alcune terre come fossero palline da ping pong. Vicenda che ha visto impegnato per una soluzione pacifica anche il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel, che nel 2004 cercò di mediare tra le parti, venendo in Italia con una delegazione di abitanti Mapuche.
In quell'occasione propose a Luciano Benetton di devolvere 2500 ettari della sua proprietà al popolo Mapuche. Benetton diede una risposta che non rispettava i diritti del popolo originario, e per questo rifiutarono l'offerta. Non era beneficenza quella che chiedevano, ma solo il riconoscimento di vivere dove erano nati e hanno sempre vissuto. Senza contare poi che l'offerta rimase molto ambigua perché non venne specificato in quale luogo si sarebbero trovati questi 2500 ettari "regalati" al popolo Mapuche.
Insomma un atteggiamento da Neo-Conquistadores più che da manager di successo illuminati ed eticamente responsabili che - al pari degli spagnoli di qualche secolo fa - vedono i territori altrui come terre di conquista e se poi qualcuno si lamenta bastano due perline colorate a sedare gli animi. Ma la storia millenaria dei Mapuche non ha fatto sconti ai seguaci di Don Cristoforo e non pare intenzionato darli neppure a Don Carlo e Don Luciano. "Siamo convinti che la storia si possa cambiare, forse non abbiamo i mezzi che ha Benetton ma abbiamo molte volontà e la somma di volontà va a squilibrare la bilancia". Dice un portavoce della comunità di Santa Rosa Leleke.
Ma gli interessi Benetton pare vadano oltre le terre e le pecore da lana. Associazioni per i diritti umani che sostengono la causa Mapuche assicurano che la compagnia riceve anche benefici fiscali, ma anche soldi per esplorazioni petrolifere - e forse anche minerarie - e si prepara a lanciare un business nel legno, in parte finanziato dallo Stato. Insomma un buon affare a 360 gradi.
Insomma non solo bei vestiti nell'armadio Benetton, anche un bel po' di scheletri, e questo non è certo l'unico. Con quest'ultima iniziativa di appoggio al progetto di microcredito in Senegal la multinazionale tenta di passare un immagine da paladina dei diritti umani. Ma è poco convincente visti i precedenti ancora pendenti. Forse non bastano più le buone intenzioni sbandierate grazie a campagne pubblicitarie di grande impatto. Se risparmiassero qualche soldo e anziché strapagare personaggi illustri del mondo della comunicazione perché si inventino spot ad effetto ne lanciassero uno semplice semplice e magari lo rispettassero: United colours of Rights.
di Elvira Corona