L'articolo di questa settimana, dedicato alle riflessioni sull'evoluzione, le necessità, i bisogni e le problematiche che interessano il Terzo settore, che stiamo curando in collaborazione con il Master Promotori del Dono dell'Università dell'Insubria, lo ha redatto per noi il Prof. Giuseppe Porro, che ci propone un'interessante quadro del comportamento dei donatori in Italia.

Secondo l’ultimo Italian Giving Report di “Vita”, il 55% degli italiani ha donato ad un ente non profit nel 2022, e il 50% ha effettuato donazioni informali. Tanto le quote di donatori quanto l’entità delle donazioni, poi, appaiono in forte crescita rispetto agli anni precedenti: gli oltre 6,7 miliardi di euro donati nel 2022 mostrano un aumento di 1,1 miliardi rispetto al 2021. E si dovrebbero ricordare, per completezza, i molti gesti di donazione che sfuggono alle rilevazioni statistiche, ma non per questo sono meno importanti.

C’è modo, per un economista, di ricomporre questo fenomeno, che riguarda l’Italia almeno quanto il resto del mondo, con la logica dell’homo oeconomicus, dai più ritenuto il prototipo dell’individualista, unicamente orientato all’ottenimento del massimo benessere personale?

Nella teoria economica tradizionale è possibile ospitare, senza eccessive difficoltà, comportamenti altruistici, nella forma delle eredità lasciate dai genitori ai figli. Tuttavia, questo non può bastare a spiegare in modo convincente comportamenti che vanno dalla decisione di Bill Gates o di Warren Buffet di donare una parte cospicua del proprio patrimonio, fino alle scelte di piccole donazione in denaro o lavoro di molte persone comuni.

Anche il senso di colpa o il desiderio di restituzione sembrano motivazioni, nella migliore delle ipotesi, parziali o valide per un numero limitato di casi.

Accanto alle teorie che contestano alla radice il paradigma dell’individualismo metodologico, e immaginano – per le ragioni più diverse – l’esistenza di agenti economici altruisti per natura, intenti a curarsi del benessere delle altre persone anziché del proprio, la sola ipotesi che può riconciliare la teoria economica tradizionale con scelte di donazione tanto diffuse e pervasive da apparire un atteggiamento del tutto normale è che gli agenti economici (cioè le persone comuni: siamo tutti agenti economici…) trovino conveniente (cioè vantaggioso) donare qualcosa di sé senza attendersi alcun immediato corrispettivo.

Come può essere? Diversi studiosi sottolineano che donare procura a chi dona una gratificazione in sé: lo chiamano warm glow, una sensazione positiva che deriva dal sentirsi utili, premurosi, forse buoni. 
In modo più convincente, un numero crescente di persone sta probabilmente sperimentando che è vantaggioso vivere in una comunità in cui è normale prendersi cura delle esigenze degli altri. Il vantaggio deriva dalla molteplicità di iniziative e di servizi che le iniziative non profit offrono e che il mercato non sarebbe in grado di fornire con la medesima capillarità ed efficacia; dal maggiore senso di sicurezza che deriva dal sentirsi circondati da persone che si fanno carico dei bisogni dei più fragili; dalla convinzione che l’attitudine alla condivisione generi un ambiente sociale più favorevole persino al successo delle iniziative economiche for profit (economisti e sociologi, quando alludono a questo contesto community friendly, lo chiamano “capitale sociale”). E da molte altre ragioni ancora.

Certo, la scienza economica che si diletta di teoria dei giochi ci ha insegnato anche che questo atteggiamento altruistico trova un nemico potenzialmente letale nel free rider, ovvero in chi -consapevole di trovarsi in una comunità che si prende cura dei bisogni reciproci – decide di approfittarne, limitandosi a goderne i benefici, senza sostenerla a sua volta con il proprio comportamento. Il free rider, in effetti, ritiene così di massimizzare nell’immediato il proprio vantaggio, ma non comprende che in questo modo sta distruggendo la fiducia che i suoi vicini ripongono nella comunità: se i comportamenti opportunistici si moltiplicano, infatti, la sensazione di far parte di una rete relazionale solidale svanirà, e con essa la disponibilità a donare e a prendersi cura degli altri.

Per questo, il Master per Promotori del Dono non si limita a formare le capacità comunicative, gestionali, amministrative di chi sollecita le donazioni a favore delle iniziative non profit, ma vuole contribuire a informare e a formare una “cultura del dono” che renda tutti più consapevoli del mutuo vantaggio di vivere in una comunità solidale. 
Insegnando anche al free rider che donare, nel medio periodo, conviene decisamente anche a lui.

 

Giuseppe Porro, docente di Politica economica all’Università dell’Insubria, è direttore scientifico del Master di primo livello per Promotori del Dono.

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