Uno dei grandi temi per il Terzo settore è avvicinare i giovani al lavoro ma anche al volontariato per il ricambio generazionale nell’ associazionismo. L’articolo offre qualche riflessione soprattutto evidenziando cosa sarebbe meglio evitare.
In un precedente articolo, insieme alla collega Martina Fumi, seguendo il dibattito in corso, avevamo trattato, il tema della cosiddetta grande “fuga” e del cambiamento degli atteggiamenti dei giovani (e non solo) nei confronti del lavoro. Una delle aspettative più frequenti dei giovani - ad esempio - è quella di svolgere un “lavoro interessante” sulla base delle proprie preferenze, della finalità e dell’utilità sociale del lavoro stesso. Certo, non è una novità, ma le generazioni precedenti, forse, erano molto più disposte a scarificare l’interesse di fronte a un lavoro “comodo” specie se è fisso.
Oggi abbiamo molti casi di giovani che, dopo aver vinto un concorso pubblico, si dimettono perché non trovano il lavoro di proprio gradimento. Cosa impensabile fino a qualche anno fa. Certo dobbiamo aspettare qualche anno per vedere se si tratti di un effetto di qualche contingenza o piuttosto di un vero cambiamento sociale.
Le aziende qualche domanda se la pongono su come rendere il lavoro più attraente, non solo, in merito al contenuto, ma anche alle modalità e al contesto. David Graeber in “Bull shit jobs” (tradotto da Garzanti) ha messo in evidenza che molti dei lavori nei contesi aziendali sono considerati “inutili” e “senza senso” da coloro che li svolgono.
Cosa possiamo fare? Possiamo ripensare e rimodulare i modelli organizzativi, i processi e i mansionari? Sicuramente sì, ma possiamo anche chiederci se è possibile cambiare visione. Ad esempio, molto spesso l’inutilità del lavoro è generata da compiti scaturiti da una eccessiva applicazione del modello lineare della Pianificazione. Incontro molte persone con responsabilità gestionali che si lamentano di passare molto tempo a compilare schede e tabelline di dubbia utilità. Sarà perché la voglia di controllo è intramontabile, sarà perché “compliance”, “certificazioni”, “rendicontazioni” sono ormai entrate nella vita organizzativa, il fatto è che queste pratiche sono molto diffuse.
Lo stimolo per una riflessione mi viene offerto da un caso specifico di un ente impegnato a rendersi “conforme” nell’applicare un modello di pianificazione imposto “dall’alto” (potrebbe ugualmente essere un’unità operativa all’interno di una azienda). All’ente viene imposto di impegnare energie in un esercizio più formale che di sostanza, compilando tabelle, elaborando dati e quant’altro, per dimostrare la linearità e la coerenza del suo ciclo pianificatorio. Il modello della pianificazione in fondo si basa sul principio che prima si analizza il contesto, si definiscono obiettivi/priorità e poi si passa all’azione (il noto ciclo di Deming PDCA). Cosa c’è di sbagliato? Siamo “cresciuti” con questa visione: prima lo studio e poi la pratica. Qualche dubbio, però, l’abbiamo sempre avuto. Oggi, grazie anche alle neuroscienze, sappiamo bene che il rapporto tra conoscenza ed esperienza è più dialettico che lineare. Pensare, sentire e agire sono inseparabili per noi esseri viventi.
Quindi, è corretto pensare che esista una realtà “là fuori” che aspetta di essere analizzata? O che in un contesto (VUCA Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity) gli obiettivi rimangano gli stessi per tutto il periodo che serve a preparare la macchina realizzativa? Non è meglio cercare altre formule per rinnovare la gestione per obiettivi (MBO)?
Il tema sicuramente non è nuovo e nemmeno facile, non esiste un one best way; sono diversi anni che se ne parla. Personalmente, trovo curioso che tali approcci di stampo razionalista vengano introdotti oggi con maggiore insistenza, anche grazie alla riforma del Terzo Settore, proprio nel mondo del sociale e del volontariato, dove sembrerebbero meno adatti.
In un settore, per sua natura mutevole, che promuove il modello razionale-lineare come l’unico valido, forse, non è la strategia giusta. Il principio organizzativo che servirebbe è quello della capacità di adattamento rapido ai cambiamenti. Insistere con il principio pianficatorio aumenta il rischio, da una parte, di rendere l’organizzazione poco efficace e, dall’altra, di generare la frustrazione a operatori o a volontari del lavoro inutile.
Tutto ciò, in un settore, quello del volontariato, nel quale si ha un bisogno urgente del ricambio generazionale con il reclutamento di tanti giovani. Non è forse necessario pensare di rendere il lavoro e le attività più attraenti e interessanti per i giovani?
Il Prof. Galiberti (L’etica del Viandante, Feltrinelli) ci dice che non esiste soltanto l’etica della razionalità tecnica (punti di partenza e di arrivo chiarissimi fin dall’inizio), ma anche quella del viandante che parte, ma senza sapere esattamente dove lo porterà la strada. Il che non vuol dire evidentemente rinunciare ad avere obiettivi, ma semplicemente che questi si aggiornano in relazione ai nuovi dati del contesto, riducendo al minimo l’intervallo di tempo necessario per riadeguare il “come” e il “cosa”. In questo caso vanno certamente rivalutati “valori”, “mission” ed “etica” (vedi Compliance, Etica e Organizzazione e La narrazione come azione organizzatrice - Bilancio Sociale e Codice Etico.
Per affrontare le sfide di oggi non basta replicare soluzioni già repertoriate. Abbiamo bisogno di sviluppare la capacità autoregolativa, cioè cogliere segnali dell’ambiente e adeguare il nostro operato generando azioni e, se necessario, obiettivi nuovi. Servono contesti organizzativi dove c’è spazio per comportamenti basati solo su una logica preventiva-prescrittiva, ma anche su una auto-regolativa. Impariamo a ri-orientare l’operatività, ricercando l’equilibrio tra la logica lineare della pianificazione “tradizionale” e quella “circolare” dove, grazie al monitoraggio dinamico, obiettivi, azioni e risultati sono in continua ridefinizione.
In questi modelli organizzativi, sempre più “fluidi”, dove alle singole unità e/o agli operatori si concede sempre più autonomia e responsabilità, è più probabile che il lavoratore (o il volontario) possa sentirsi valorizzato e attribuire così un senso positivo al suo lavoro.
La discussione sull’utilità dei modelli razionali e lineari non è nuova. Uno dei più grandi studiosi del management, H. Mintzberg, (“Ascesa e declino della pianificazione strategica”. ISEDI) fin dagli anni ’90 ci metteva in guardia: “Una buona parte della pianificazione aziendale.... è come una danza della pioggia rituale. Non ha alcun effetto sui fenomeni meteorologici, ma chi la pratica è convinto del contrario". Molto prima, nel 1978, H. Simon vinceva il premio Nobel studiando proprio il concetto della “razionalità limitata”.
Ancora oggi c’è chi crede che per valutare l’operato delle organizzazioni basta affidarsi all’analisi di “coerenze” formalistiche, tra il dichiarato e il realizzato. Dato che parliamo anche di terzo settore non sarebbe meglio spostare le energie verso lo sviluppo di pratiche volte a misurare i risultati e l’impatto? A questo proposito, in un precedente articolo, ho presentato due esperienze di modelli alternativi di governance. Pianificare vuol dire cercare di predire e controllare il futuro che spesso ci sfugge; misurare i risultati significa invece imparare a lavorare con la realtà nel suo divenire, come ci insegna Frederic Laloux (Reinventare le organizzazioni, Guerini NEXT).