Pubblichiamo il secondo del ciclo di tre articoli sulla "giustizia riparativa", un approccio che - come si dice nel primo articolo - dovrebbe entrare, a buon diritto, come pratica essenziale nella vita di tutti i giorni, per ricostruire i legami lacerati dal conflitto, che, se ben gestito, può diventare dinamica generativa di benessere e di nuovi equilibri.
Le parole che si sceglie di utilizzare sono importanti perché delineano scenari e tessono trame.
Martin Heidegger ricordava “Il linguaggio è la casa dell’essere”; le parole sono “piccole dimore”, per questo tanto preziose quanto delicate.
La parola “responsabilità” (da sostituire a “senso di colpa”), nella Giustizia riparativa, assume un valore chiave.
Ilaria De Vanna e Lisangela Sgobba la definiscono, nel loro “Dizionario minimo di parole necessarie” in maniera esemplare: “Responsabilità è parola immensa. Cardine del mondo. (…) È legame, nodo, congiunzione. Intende la vita come progetto comune. In comune con ciascun essere vivente. Responsabilità è sentirsi connessi e sapersi annessi ad ogni cosa. E’ sentirsi convocati in ogni istante a contribuire alle sorti del mondo. (…) Bonifica l’animo dal disinteresse, dall’indifferenza e fa spazio all’interesse e alla premura. La parola responsabilità è un altro modo per dire che “tutto conta” e che per ciascuna cosa esiste una giusta formula di bene, e di bene comune che ci si impegna a realizzare.”
Molto spesso la persona privata della libertà personale è lasciata sola, a tal punto da rimanere imbrigliata nella propria sofferenza, arrivando a sentirsi vittima; quindi per nulla accompagnata a responsabilizzarsi verso le vittime vere del danno commesso, che molto spesso non vengono neanche riconosciute come tali.
Contemporaneamente, per le persone fuori, il rischio è quello di posizionarsi nella zona confortevole del giudizio sugli altri e guardare alle persone detenute con quell’unica identità racchiusa esclusivamente in quel giudizio, senza riconoscere che esistono molteplici e alternativi punti di vista da cui guardare le storie degli altri.
Ciò che si vuole evitare è il disinteresse, l’indifferenza, la delega, il guardare altrove, il ritenere che non ci riguardi, l’appiattirsi sul senso di ineluttabilità.
Partendo dal principio che la realizzazione di una Giustizia più “giusta” reclama un intervento attivo degli attori coinvolti, ovvero la persona indicata come autore dell’offesa, la vittima e la comunità, in vista della ricostruzione dei legami sociali lacerati dall’offesa/reato, la riflessione si deve spostare sul significato etico e politico della riparazione come attitudine e aspirazione ad una qualità ricostruttiva e rigenerativa della collettività. Solo così siamo in grado tutte e tutti di promuovere e contribuire al senso di sicurezza collettivo.
Così inteso, il paradigma riparativo oltrepassa i confini dell'ambito giudiziario per collocarsi all'interno di ogni settore della vita di relazione: è appropriato ed efficace nei contesti di giustizia, sicurezza, peace building, educazione, sviluppo sociale, sostegno familiare, diritti e benessere di bambine e bambini, così come nella vita organizzativa e comunitaria.
“Riparare” i danni, gli squilibri, le ingiustizie, reclama un intervento corale e diffuso per costruire o ricostruire contesti di vita il più possibile pacificati e fautori di giustizia sociale...un percorso attraverso “luoghi” reali e metaforici nei quali l'arte del riparare orienta ai valori del cambiamento, della partecipazione, del riconoscimento reciproco, dell'alterità, della libertà, della giustizia; infatti si parla di giustizia relazionale, giustizia dell’incontro, giustizia trasformativa, giustizia generativa.
KINTSUGI ( = aggiustare con l’oro)
E' un'arte giapponese che riunisce i pezzi di un oggetto di ceramica rotto attraverso l'uso di un metallo prezioso, oro o argento liquido o lacca con polvere d'oro. In questo modo ogni pezzo riparato diviene unico e irripetibile; le fratture vengono evidenziate, impreziosite e questo aggiunge valore all'oggetto inizialmente danneggiato.
Nadia Brandalise