C’era una volta, in un regno molto molto lontano, la “valutazione di impatto”, Cenerentola della filantropia.
Da quando la Ford Foundation, negli anni ’70, traslò probabilmente per la prima volta l’uso degli studi randomizzati controllati, già utilizzati in altri settori, a un programma filantropico, la valutazione ha agito infatti lontano dai riflettori, nella inconsapevolezza del grande pubblico. Questo nonostante abbia provato a rispondere, a volte con grande successo, a piccole grandi domande del nostro tempo.
“Piccole” perché molto specifiche, delimitate, legate a un contesto spazio-temporale e soggette ai tanti distinguo e caveat che sempre condizionano la ricerca scientifica (vera) e mal si prestano a proclami e verità assolute. “Grandi” perché relative a problemi sociali che condizionano la vita di tante persone e per cui abbiamo bisogno di soluzioni efficaci. Ad esempio, come aumentare il tasso di immunizzazione infantile? Come ridurre i contagi da malaria? Fino a: sono efficaci i case manager per aumentare l’inserimento lavorativo di persone con disabilità psichica grave? E tante altre.
A dispetto delle importanti implicazioni che queste risposte hanno spesso offerto per lo sviluppo socio-economico delle comunità, la valutazione – ignorata da una filantropia e da un settore sociale concentrati sui risultati realizzativi della propria azione (attività e output) più che sui cambiamenti (outcome) generati – è rimasta appannaggio di pochi: fondazioni, progetti di cooperazione allo sviluppo e policymaker (non italiani). Malinconicamente confinata nella stanza più remota della torre più alta e inespressa nel suo potenziale ma ortodossa e reale. Pro e contro, ma tant’è.
Fino a che qualcosa è cambiato. Sembra quasi assurdo, oggi, pensare a un periodo in cui la locuzione “impatto sociale” non era sulla bocca di tutti. Oggi “valutiamo l’impatto” (enfatizzare le virgolette) di progetti, di organizzazioni non profit, di imprese, di investimenti. Chi non ha, nel proprio storytelling, un incredibile “impatto sociale” sul mondo?
Tanto, in realtà, è cambiato ma, ai fini di una fiaba sintetica come la presente, concentriamoci – in modo sicuramente approssimativo e riduttivo – su due fattori che hanno trasformato la parola impatto e, di conseguenza, la sua valutazione. Uno riguarda il nostro Paese, l’altro attiene al contesto globale.
- A livello globale, il tema della sostenibilità in senso ampio è cresciuto gradualmente, passando da pratica difensiva (minimizzo le esternalità negative del mio business) a mantra proattivo (enfatizzo il valore non finanziario del mio business). ESG, impact investing, società benefit… sono solo alcune dei termini entrati nel nostro lessico recente. Questa evoluzione, sicuramente positiva a livello teorico, ha portato però una marea eterogenea di nuovi personaggi in cerca di “impatto sociale”, ansiosi di poterlo misurare in maniera standardizzabile, sintetico, comunicabile e facilmente digeribile.
- A livello italiano, il concetto di VIS (valutazione impatto sociale) introdotto dalla Riforma del Terzo Settore ha snaturato una giusta richiesta alle realtà non profit di accountability e trasparenza. In sostanza, invece di concentrarsi sul diffondere standard rendicontativi quali il bilancio sociale (utilissimo) o infrastrutture open su cui le non profit fossero conoscibili, ha legittimato una pratica, incompatibile con il senso reale della valutazione, sintetizzata da parole quali ubiquità (valutare sempre), universalità (valutare qualsiasi cosa) e superficialità (valutare in qualche modo).
Ecco quindi che ci troviamo dinanzi a un paradosso: chi per primo e a lungo ha utilizzato rigorosamente la “valutazione di impatto” si trova ora senza parole perché le parole sono state trasformate nel loro senso e significato. Perché ora, nell’espressione “impatto”, coesistono due correnti altamente diverse. Da un lato la comunità scientifica, che continua a stimare l’impatto cercando di rispondere a due “semplici” domande: l’intervento in questione è stato efficace nel produrre gli effetti pianificati in fase di progettazione? Tali effetti si sarebbero verificati senza l’intervento?
Dall’altro, quella che potremmo chiamare la nebulosa VIS. Riportando la definizione inserita nelle “Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell'impatto sociale delle attivita` svolte dagli enti del Terzo settore”: “La definizione di impatto sociale introdotta dal legislatore incorpora al suo interno elementi espliciti relativi alla qualita` ed alla quantita` dei servizi offerti, alle ricadute verificabili nel breve termine e quindi piu` dirette, ma anche agli effetti di medio-lungo periodo, che afferiscono alle conseguenze ed ai cambiamenti indotti sulla comunita` di riferimento, nella prospettiva della costruzione di comunita` piu` inclusive, sostenibili e coese […] Il sistema di valutazione dell'impatto sociale ha il fine di far emergere e far conoscere: il valore aggiunto sociale generato; i cambiamenti sociali prodotti grazie alle attivita` del progetto; la sostenibilita` dell'azione sociale”. Chiarissimo. Molto conveniente unire concetti quali quantità, qualità, effetti, sostenibilità, ecc. Permette a tutti di “valutare” qualcosa e chiamarlo “impatto sociale”.
Inutile piangere sulla valutazione versata. Forse sarebbe opportuno uno stacco terminologico che permetta di affrancarsi dalla parola “impatto”, irrimediabilmente distorta dallo storytelling dominante: già da tempo i valutatori più rigorosi hanno adottato la più realistica e univoca locuzione di stima degli effetti. Ma, andando oltre il lessico, è fondamentale che ognuno di noi si interroghi su quale “impatto” sia più utile per sé: quello della compliance alla normativa e al marketing, che permette di ornare le nostre organizzazioni con due strati di fard e un po’ di correttore? O quello della valutazione – qualificata, scientifica, in linea con le buone pratiche internazionali (si vedano, a titolo di esempio, i Nobel per l’economia 2019 e 2021) che può aiutarci, quando fattibile e opportuno, a capire se i nostri progetti sono efficaci?
Siamo realistici, una non esclude l’altra. È possibile portare avanti, nel modo più utile e intelligente possibile, entrambe le pratiche, ovviamente con scopi diversi. Ma per farlo scientemente e non subire passivamente proposte di sedicenti valutatori, presentazioni entusiastiche di organizzazioni (profit e non), richieste insensate di finanziatori, ecc. è opportuno uscire dalla fiaba, analizzare criticamente gli strumenti a disposizione, e decidere quale senso dare alla valutazione e come integrarla nella propria realtà.
Proveremo a farlo nel corso "La valutazione d’impatto attraverso la Teoria del Cambiamento" in cui risponderemo a domande quali:
- Che tipi di valutazione esistono, che obiettivi hanno, cos’è una valutazione di impatto? Questo ci permetterà tra l’altro di capire: chi ci parla di “valutazione” lo fa con cognizione di causa?
- Cos’è una teoria del cambiamento, a cosa serve, come possiamo svilupparla? Questo ci permetterà tra l’altro di capire: che differenza c’è tra una theory of change e un quadro logico basato sulla results chain?
- È sempre necessario valutare l’impatto? È sempre possibile? Questo ci permetterà tra l’altro di capire: che passi dobbiamo compiere per valutare l’impatto? Quando ha senso? Cosa possiamo fare quando non ha senso o non si può fare?
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