È importante conoscere l'evoluzione dell'azione volontaria e con essa di tutto il Terzo settore, per comprendere i cambiamenti che stanno avvenendo con l'introduzione del codice del Terzo settore. Vi proponiamo un interessante excursus storico sul volontariato, estratto dall'intervento del direttore di Cesvot Paolo Balli in occasione del convegno “La trasformazione dell’azione volontaria”. Dall'iniziale funzione del volontariato di anticipazione dei bisogni alla sempre maggiore istituzionalizzazione, dal depauperamento dell'autonomia politica e culturale del Terzo settore alla professionalizzazione del volontariato, dalla frammentazione associativa alla difficoltà di reclutamento dei volontari, all'aggravamento del carico burocratico delle associazioni, fino ad arrivare all'introduzione del Codice del Terzo settore con i suoi pro e contro. Paolo Balli, partendo dalle indagini di Cesvot, fa un'analisi chiarificatrice dell'andamento del volontariato, sia dal punto di vista delle associazioni che da quello dell'espressione/bisogno individuale, sottolineando quanto e come sia fondamentale saper intercettare l'attuale predisposizione – postpandemica - di una significativa parte della cittadinanza ad impegnarsi nel volontariato.

In questi anni volontariato e terzo settore – e quindi anche l’azione volontaria – hanno subito significativi cambiamenti, alcuni dei quali espliciti perché introdotti da una tumultuosa attività normativa. Ma altri, quelli che hanno prodotto i loro effetti sul versante sociologico, culturale ed economico, hanno lavorato in maniera carsica, ma non per questo con minore portata. La lettura dei primi non può essere disgiunta dai secondi e la situazione che possiamo analizzare oggi non è che l’effetto del loro combinato disposto.

Con questa premessa, sarà interessante analizzare il tema dell’azione volontaria e della sua evoluzione storica sotto tre profili: azione volontaria e istituzionalizzazione del terzo settore, azione volontaria e forme tipiche di Ets (con particolare riguardo a odv e aps); azione volontaria tra volontariato individuale e volontariato organizzato.

Azione volontaria e istituzionalizzazione del terzo settore
Quando si parla di istituzionalizzazione del terzo settore ci si riferisce a quel fenomeno di relazione istituzionale tra associazioni del terzo settore ed istituzioni pubbliche, fenomeno che porta le prime, previa una sorta di accreditamento normativo, a svolgere una serie di funzioni a favore della collettività in accordo e per conto delle seconde.

Tale fenomeno, nella letteratura definito welfare mix o welfare community, non nasce direttamente con queste caratteristiche, ma è il risultato di un processo storico, che trae la sua origine a partire dagli anni ‘70. In questo periodo infatti, in un contesto ancora di successo delle strutture intermedie (partiti, sindacati, etc.), si sviluppa e si afferma fortemente l’istanza associativa. La tendenza a svolgere volontariato si caratterizza per un particolare orientamento all’interesse generale o, comunque, ad interessi collettivi. In parole povere, si fa volontariato perché si ha la consapevolezza che con il proprio contributo saremo utili ad una causa più grande, ad una istanza collettiva o, più genericamente, al miglioramento della società. È evidente che questa conformazione dell’azione volontaria individuale – così socialmente orientata – risulta assai funzionale alla forma organizzata o associativa, che rappresenta a sua volta lo strumento considerato più idoneo ed efficace per perseguire quegli interessi collettivi di cui si parlava. Ripeto, si tratta di un fenomeno che non riguarda solo il mondo associativo, ma tutte le forme intermedie della società.

Se dunque le associazioni sono portatrici di un progetto collettivo di miglioramento della società o di settori di essa, non deve sorprendere che esse curino interessi specifici che sono sostanzialmente sprovvisti di una tutela statuale. Esse affinano una capacità di lettura del territorio e si caratterizzano per una funzione di anticipazione dei bisogni che, in quel dato momento storico, non sono oggetto di cura da parte degli Enti pubblici.

A partire dalla fine degli anni ‘80 comincia ad attivarsi da parte delle pubbliche istituzioni un percorso di riconoscimento delle funzioni svolte dalle associazioni e di presa in carico di quegli interessi come interessi pubblici. Il primo passaggio significativo è rappresentato dall’introduzione di numerose leggi di settore che, nell’istituire registri pubblici, avviano un percorso di accreditamento delle associazioni del terzo settore: tale accreditamento è il presupposto per l’attivazione di forme di collaborazione per la realizzazione di attività sul territorio e lo strumento che rende effettiva tale collaborazione è rappresentato dalla convenzione.

Gli atti normativi che inaugurano questa nuova stagione sono la L. 266/91 sul volontariato, seguita poi dalla LRT 28/93 e successive modificazioni, la L. 383/00 sulla promozione sociale, seguita dalla LRT 42/02. In particolare, la legge 266/91 (legge quadro sul volontariato) introduce per le associazioni di volontariato il registro regionale, di fatto generando una suddivisione tra odv iscritte – che potranno convenzionarsi con la pubblica amministrazione – e odv non iscritte che non potranno convenzionarsi (in gergo, odv riconosciute o non riconosciute). Il legislatore introduce uno schema – sostanzialmente ripetuto nelle altre leggi citate – che non tocca minimamente la libertà di costituire una associazione di volontariato (libertà che, ricordiamo, era stata soppressa dal precedente regime fascista), ma si limita a dettare delle condizioni perché la stessa possa avere rapporti con la pubblica amministrazione. Attenzione, vorrei sottolineare questo schema, perché non è lo stesso che è stato seguito dal codice del terzo settore con gli Ets.

Oltre alla possibilità di iscriversi ad appositi registri, l’effetto che deriva da queste novità legislative consiste nell’attivazione su tutto il territorio nazionale di rapporti di convenzionamento.
Vi è da dire che questo fenomeno, almeno nella fase iniziale, determina un rafforzamento della legittimazione sociale delle associazioni per il fatto di svolgere importanti servizi su un territorio. Si può anzi dire che alla dimensione identitaria dell’associazione, rappresentata da un patrimonio ideale e dalla funzione di promozione della cittadinanza attiva (comprensiva di una funzione di critica sociale), si affianca l’ulteriore ruolo di gestore di un importante servizio pubblico in un determinato territorio. È importante sottolineare questo doppio elemento – identità e servizio – perché esso diventa il fulcro delle questioni che coinvolgono i mutamenti successivi.

Infatti, a fronte della crescita esponenziale delle convenzioni e, più genericamente dei rapporti di collaborazione tra terzo settore ed enti pubblici (in certi casi sino a raggiungere il livello di indispensabilità di quel servizio svolto dal terzo settore), si comincia a cogliere un indebolimento di quella dimensione identitaria a scapito di una funzione di servizio sempre più marcata e centrale. Questo fenomeno emerge in modo chiaro da numerose evidenze scientifiche, a partire dalle indagini effettuate da Cesvot sulle odv sin dal 1998. In buona sostanza assistiamo, a fronte di un crescente ruolo del terzo settore nella gestione di servizi (anche essenziali), ad un affievolimento della funzione di lettura ed anticipazione dei bisogni del territorio: anzi, è l’ente pubblico che evidenzia i bisogni e programma gli interventi, mentre il terzo settore tende a svolgere una funzione sempre più attuativa.

Naturalmente questo indebolimento identitario non può non appannare quella funzione di critica sociale che aveva portato il terzo settore a svolgere un ruolo dialettico, talvolta critico e comunque di stimolo nei confronti dell’ente pubblico. Tale funzione viene gradualmente a spegnersi all’interno di un rapporto committente – fornitore, ove quest’ultimo, sempre più spesso relegato ad una funzione attuativa, tende ad evitare posizioni critiche e tanto meno antagoniste rispetto al primo.

Assistiamo quindi ad un depauperamento dell’autonomia politica e culturale del terzo settore che, come per un effetto domino, determina ulteriori conseguenze. La circostanza di svolgere e assicurare importanti servizi per l’ente pubblico – soprattutto nel settore socio sanitario - determina una crescita della professionalizzazione nel terzo settore, e allo stesso tempo, una percezione sempre più diffusa da parte del cittadino che tende a confondere quell’attività svolta dal terzo settore come un pezzo di un servizio pubblico. Ulteriore conseguenza di ciò è la crescente difficoltà di reclutamento di volontari, che emerge da molte evidenze scientifiche, unitamente ad un fenomeno di frammentazione associativa, anch’esso reso evidente dall’impennata del numero degli enti del terzo settore iscritti ai registri, cui non corrisponde un aumento complessivo del numero dei volontari.

La novità dell’introduzione del codice del terzo settore non pare inserire elementi di contrasto a questo fenomeno, anzi. La riforma del 2017 presenta certamente aspetti positivi e positivo è il fatto che il concetto di terzo settore, sino ad ora relegato ad una dimensione puramente sociologica, acquisti un significato giuridico normativo nel quadro di una disciplina complessiva della materia, sino ad ora invece caratterizzata da norme speciali o di natura fiscale. Se questo riordino complessivo, invocato peraltro da anni dallo stesso terzo settore, è da giudicare positivamente, almeno nelle intenzioni, l’approccio assai dirigistico utilizzato dal legislatore ha determinato un eccesso di disciplina normativa ed un significativo aggravamento del carico burocratico delle associazioni. In particolare è interessante notare che la ratio del legislatore è quella di evidenziare precisi criteri normativi di accreditamento, ovviamente finalizzati a regolare il rapporto tra enti del terzo settore e la pubblica amministrazione. Si persegue pertanto il medesimo obiettivo perseguito con le già citate leggi di settore, ma con un ben più ampio armamentario di oneri ed obblighi e con un approccio totalizzante. L’approccio totalizzante è determinato dal fatto che, a differenza di quello che prevedeva ad esempio la legge quadro sul volontariato, distinguendo tra odv riconosciute e odv non riconosciute, il codice del terzo settore conferisce al nuovo registro unico nazionale una funzione costitutiva della qualifica di ente del terzo settore: se si è iscritti, si diventa enti del terzo settore, se non si è iscritti, non lo si diventa. In buona sostanza, per esemplificare, non esistono gli enti del terzo settore non riconosciuti, perché per il legislatore questi meritano di esistere solo se garantiscono una serie di requisiti formali di accreditamento del tutto funzionali al rapporto con la pubblica amministrazione.

Che ne sarà quindi di tutte quelle realtà che per un motivo o per un altro non saranno iscritte nel runts e che certo non per questo cesseranno di svolgere quella funzione di tenuta del tessuto sociale attraverso anche e soprattutto la loro azione volontaria? Usciranno definitivamente dai radar? Il tema è molto importante e sarà presto di grande attualità non appena si esaurirà la fase di primo avvio del registro unico nazionale.

Azione volontaria e forme tipiche di ets
Importante affrontare anche il tema del diverso atteggiarsi dell’azione volontaria all’interno delle forme tipiche degli ets, in particolare delle odv e delle aps. 
Come sappiamo, entrambe queste forme tipiche dispongono di una specifica legge che le ha disciplinate istituendo appositi registri. Odv e aps sono peraltro, allo stato della normativa, gli unici ets preesistenti all’ingresso del Runts, tanto che il legislatore ne ha previsto la trasmigrazione.
Ciò premesso è possibile evidenziare – in base alle nostre stesse ricerche degli ultimi anni - un mutamento dei rapporti tra queste due forme tipiche, sia per quanto riguarda il diverso modo in cui è svolta e percepita l’azione volontaria al loro interno, sia per quanto riguarda più semplicemente il loro rapporto quantitativo.

Partendo da quest’ultimo aspetto, che vi illustrerà con maggior completezza il prof. Salvini, basti in questa sede solo osservare che i dati di questi ets iscritti ai rispettivi registri evidenziano un movimento assai significativo: nel 2018 le odv iscritte erano 3.361 a fronte di 2.495 aps, mentre nel 2020 le odv sono 3.287 e le aps 2.653. Se si combina questo dato con la tendenza da parte di una quota - piccola, ma comunque significativa - di odv che alla vigilia dell’ingresso del Runts hanno dichiarato di voler assumere la forma di aps, ecco che emerge quella che il Prof. Salvini definisce come una “tendenza al pareggio”.

Le ragioni che motivano questo spostamento delle odv a favore delle aps appaiono chiare se si va ad indagare come è vissuta l’azione volontaria all’interno delle diverse entità associative. Dalle nostre ricerche sia sulle odv che sulle aps emergono infatti delle diverse modalità di atteggiarsi dell’azione volontaria.

Come abbiamo già detto, il terzo settore ha subito in questi ultimi 20 anni un processo di spiccata istituzionalizzazione. All’interno del terzo settore, sono le odv che hanno maggiormente subito questo fenomeno e tra queste in particolare il settore socio sanitario. Infatti la gestione di importanti servizi svolte da quest’ultime in regime di convenzione a favore della collettività ha determinato la necessità di una sempre maggiore professionalizzazione dei propri volontari (spesso affiancati da dipendenti), di fatto “tipizzando” e irrigidendo in determinati protocolli le modalità di esplicazione dell’azione volontaria. Viceversa, la minor incidenza della relazione istituzionale delle aps ha consentito e consente uno spazio maggiore per lo sviluppo dell’azione volontaria. Queste considerazioni valgono non solo per chi svolge volontariato all’interno di odv e aps, ma anche per i cittadini che aspirano a diventare volontari ed effettuano delle scelte in relazione ai propri orientamenti. È del tutto evidente il diverso tipo di impegno che può essere prospettato ad un cittadino che intende entrare in una realtà associativa per essere di aiuto agli altri attraverso la proprio azione volontaria quando l’alternativa è tra uno spazio libero ed un corso di formazione per acquisire quelle abilità idonee allo svolgimento di un servizio.

In buona sostanza, la gestione di importanti servizi per la collettività impone la standardizzazione di molte attività e la professionalizzazione dei volontari ne è una conseguenza diretta. Come pure, la necessità di garantire la continuità del servizio determina un apporto di volontari che, dal punto di vista del tempo messo a disposizione, non può essere lasciato alla spontaneità (od occasionalità) del singolo volontario, ma deve rispondere ad un criterio organizzativo anch’esso funzionale a questo obiettivo.

L’analisi comparata dei dati delle nostre indagini fa inoltre emergere un ulteriore fenomeno, quello di una maggiore velocità del ricambio generazionale nelle aps rispetto alle odv.

Tutte questi aspetti non sono certo evidenziati per sostenere un giudizio di valore tra le due diverse forme di ets, ma possono essere utili ai fini della ricerca delle cause dei problemi e, conseguentemente, delle possibili soluzioni.

Azione volontaria tra volontariato organizzato ed individuale
Come già trattato in precedenza, nel corso degli anni ‘70 la spinta che porta a fare volontariato è sostenuta da una istanza di cura di interessi collettivi, per cui chi fa volontariato lo fa (anche) per migliorare la propria società, quindi con una motivazione che normalmente trascende la propria persona. E, come abbiamo visto, la forma associativa rappresenta l’ambiente ideale per sviluppare questa inclinazione.

La storia è a tutti noi nota, a partire dagli anni 90, e si caratterizza per quel fenomeno chiamato “disintermediazione”. Tale fenomeno ha come corollario la crisi delle cosiddette strutture intermedie, quali partiti, sindacati, forme di rappresentanza e non può non investire il terzo settore nella sua forma organizzata.

Inoltre le nostre ricerche effettuate intervistando direttamente i volontari delle associazioni fanno emergere anche un significativo mutamento della motivazione individuale che spinge dell’azione volontaria. Si stempera via via sempre di più l’interesse collettivo come base della scelta e viene sostituito da un fondamento di tipo individuale. È quello che viene definito come “principio di reciprocità”: si fa volontariato non più o non tanto con la consapevolezza / volontà di concorrere al un progetto più generale, ma sulla base di una utilità personale. Chiariamo, utilità personale non coincide affatto con interesse egoistico, significa semplicemente che si può dare il proprio tempo nell’azione volontaria perché questo ci fa sentire meglio con noi stessi, senza che tale interna motivazione comprometta minimamente il valore solidaristico e altruistico della nostra azione.

Ecco però che questo diverso approccio fa sì che per esprimere la propria azione volontaria diventi certamente meno necessaria la forma organizzata.

Se poi pensiamo che questo diverso approccio all’azione volontaria si combina con un fenomeno, anch’esso presente nel nostro tempo, della crisi degli strumenti di rappresentanza e delle forme associative, comprendiamo che tutto ciò rappresenta un contesto importante per lo sviluppo dell’azione volontaria in forma individuale. Costatiamo infatti che anche altre forme organizzate della società assumono una forma sempre più liquida: l’esempio dei partiti a base personale o fondati sulla democrazia diretta esercitata su una piattaforma digitale è illuminante.

Non deve pertanto sorprenderci la circostanza che nel terzo settore la diffusione di gruppi informali sia sempre più rilevante in un quadro di complessivo sfilacciamento del vincolo associativo, sino ad arrivare al volontariato individuale.

Il fenomeno del volontariato individuale è stato ultimamente implementato in maniera particolare dagli enti pubblici, che sempre più spesso – anziché rivolgersi al volontariato organizzato sul proprio territorio - realizzano bandi o “chiamate” per reclutare direttamente cittadini volontari da impiegare in un progetto o per una esigenza specifica sul proprio territorio.  Inoltre questo fenomeno, oltre ad essere testimoniato da questa prassi a volte caotica e non sempre rispettosa delle posizioni dei volontari coinvolti – trova una sua base teorica nella tematica dei cosiddetti “beni comuni”. Sono questi ultimi beni di una collettività e/o di un territorio alla cui cura provvede l’ente pubblico attraverso una chiamata di cittadini disponibili a dare il proprio tempo per questo: conseguentemente molti enti locali hanno approvato regolamenti per la gestione di beni comuni del territorio ove sono previsti appunto bandi di questo tipo.

Il codice del terzo settore affronta il tema e nel descrivere l’attività di volontariato all’art. 17, la descrive come quella che può avvenire “anche” nella forma organizzata, così lasciando aperta la possibilità che la stessa possa essere svolta, e non per questo non qualificata come tale, al di fuori della dimensione organizzata e quindi nella forma individuale.

Anche la recente legge di Regione Toscana, L. 65/2020 – legge quadro regionale sul terzo settore nata dall’importante stimolo della conferenza regionale del terzo settore avvenuta nel 2018 – affronta il tema del volontariato individuale con l’obiettivo di regolamentare l’attivismo – non di rado scomposto – degli Enti locali nel far ricorso a questo strumento. Essa infatti all’art. 8, da un lato fissa dei requisiti minimi (soprattutto a tutela dei volontari) che debbono essere necessariamente rispettati dall’Ente locale, dall’altro auspica l’evoluzione dell’azione volontaria individuale nel volontariato organizzato, con ciò effettuando una significativa opzione valoriale rispetto alle due diverse forme di volontariato.

Naturalmente spetta al volontariato organizzato cogliere questa opzione e metter in campo tutti gli strumenti per divenire polo attrattivo per gli aspiranti volontari e ambiente idoneo perché l’azione volontaria individuale possa esprimersi in modo efficace e gratificante.

Conclusioni
A conclusione di questo excursus – in larga parte storico – delle caratteristiche e delle problematiche attinenti all’azione volontaria è possibile provare ad ipotizzare anche i terreni su cui lavorare in cerca di soluzioni.

In via generale risulta importante che le associazioni, soprattutto quelle impegnate in servizi, lavorino per il recupero ed il rafforzamento dell’identità sociale, riaffermando quei valori che ne rappresentano il patrimonio ideale. L’attività di servizio – importantissima non solo per la stessa associazione, ma per l’intera collettività – deve essere affiancata di pari passo da una forte identità sociale.
Si comincia ad osservare che diverse associazioni importanti – anche grazie ad un gruppo dirigente di nuova generazione – stanno affrontando il problema pensando alla creazione di strutture collaterali alla “associazione madre” ove vi sia una minore costrizione formale ed una maggiore libertà espressiva dell’azione volontaria e dove alla riflessione valoriale possano conseguire iniziative pubbliche di promozione della cittadinanza attiva.

La pandemia ha avuto un impatto negativo sulle strutture associative, ma ha paradossalmente fatto emergere un fenomeno positivo: una rinnovata crescita della predisposizione di una significativa parte della cittadinanza ad impegnarsi nel volontariato.
In questo contesto risulta fondamentale intercettare questa nuova spinta e lavorare in modo importante sul tema dell’accoglienza dei volontari, soprattutto giovani, da parte del volontariato organizzato, che rimane il fulcro dell’azione volontaria.

Questi obiettivi concorrono pertanto anche a scrivere il ruolo ed il mandato del centro di servizi della Toscana, che non potrà che impegnarsi nel supportare le associazioni attraverso i propri strumenti nel perseguimento di questi obiettivi.

 

Fonte: Cesvot

 

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