“Sono partigiano, perciò odio chi non parteggia”, scriveva Antonio Gramsci. Ma in questi giorni non è tanto difficile capire da che parte stare, prendere una posizione, dire che la guerra è sbagliata e che bisogna fermare Putin. Non è una scelta difficile se non si parla di democrazia, se si parla di una quasi (?) dittatura. La cosa più difficile da fare in questi giorni è rispondersi alla domanda “io cosa posso fare?”. 

Nella guerra più mediatica e documentata della storia, in cui ti ritrovi amici e coetanei - conosciuti nei “progetti europei” - scrivere post strazianti, chiedere sostegno all’esercito ucraino, in cui guardi su Instagram il presidente di Soleterre, Damiano Rizzi, che spiega con il nodo in gola che stanno trasferendo i bambini malati di cancro in un ospedale  dove c’è un rifugio antiaereo, e si blocca, perché non ce la fa, e ti blocchi anche tu, ti crolla una lacrima, di dolore, di empatia, di rabbia. Poi ti siedi, ti guardi intorno e continui a chiederti “cosa posso fare?”. E le pensi tutte, pensi di spegnere i termosifoni, di digiunare, di farti le docce fredde, di scendere in piazza, di fare donazioni. Ma cosa si può fare? Riflettere, forse è l’unica cosa sensata da fare in questo momento. E quindi riflettiamo, sulla storia Ucraina, sui rapporti con la Russia e con l’Occidente, sulle responsabilità, sulla necessità di costruire pace. Riflettiamo, ma chiamiamo tutto con il proprio nome. 

Gli equilibri di potere, e chi ha fatto studi internazionali lo sa bene, sono la base di tutta la politica internazionale. La storia, l’analisi delle vicende politiche che si sono susseguite negli anni, o in particolare dal 2014 a oggi, sono una solida chiave di lettura per tentare di comprendere in maniera asettica quello che sta succedendo, non i sentimenti, non le posizioni politiche atlantiste, antiatlantiste o meramente pacifiste che siano. In questi giorni, sui social e sui giornali, si leggono tante “doverose premesse” e distinguo di colpe nelle parole di chiunque stia cercando di dare la propria lettura di questa tragica vicenda, sebbene, per la maggiore, si condanni fortemente l’attacco militare e si manifesti preoccupazione per le vittime ucraine e rabbia per il deplorevole atteggiamento imperiale di Putin, che sembra incarnare la volontà espansionistica zarista. L'assegnazione di colpe, però, a mio parere, non è più utile di un’assegnazione di responsabilità. L'Occidente tutto, l’Unione Europea, i vari organismi internazionali, ogni singolo cittadino è responsabile davanti a quello che sta avvenendo. È responsabile in quanto difensore dei diritti umani, della pace, come valori fondamentali, non come diretta conseguenza degli equilibri di potere. Perché non ci può essere equilibrio tra forze democratiche e una dittatura, non ci deve essere. 

La guerra non è iniziata la notte del 24 febbraio, ma molto prima. In Ucraina, ci sono delle variabili interne che non vanno sottovalutate. Si tratta di un Paese che storicamente, anche dopo il 1991, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, è sempre stato polarizzato: una parte settentrionale più vicina all’Europa e vicina alla possibilità di avvicinarsi all'UE, anche come adesione a un sistema politico democratico e di valori liberali, e una orientale e meridionale prevalentemente russofona che si è sempre sentita più vicina, politicamente e culturalmente alla Russia. Questa polarizzazione è stata sempre difficile da gestire dai vari governi che si sono succeduti negli anni, come dimostrano anche la Rivoluzione Arancione del 2004 e la Rivoluzione del 2014. L’Ucraina è stata per anni impantanata in corruzione, cattiva gestione, mancanza di crescita economica, svalutazione della moneta e incapacità di ottenere finanziamenti dai mercati pubblici, il ché è stato strumentalizzato sia dai governi, sia dai “blocchi” occidentale e russo.  

Questa contrapposizione, come dimostra l’escalation di provocazioni susseguitesi negli ultimi mesi, sembra essere ancora accesa, ma continuare a parlare di “blocchi”, oggi, è fuorviante. Ci porta ancora ad adottare una narrazione da “guerra fredda”, oramai superata da molto tempo. Tuttavia, forse, è proprio questo l’elemento chiave che mette in risalto l’origine della mancata capacità di visione nelle relazioni internazionali che ha portato i leader occidentali a trovarsi sprovveduti davanti a questa crisi. Come sottolinea Mara Morini, docente di Politica dell’Europa Orientale presso l’Università di Genova, Putin sta criticando l’Occidente da almeno 15 anni, dalla conferenza di Mosca sulla sicurezza del 2007. Critica, di fatto, l'egemonia della potenza americana, l’unilateralismo nell’ordine internazionale che oramai non sussiste più, anzi, che nel tempo ha creato disuguaglianze e squilibri internazionali, e anche l'osannato capitalismo, che si è dimostrato non essere un sistema sostenibile in grado di produrre ciò di cui hanno bisogno le popolazioni. Ha messo in luce la necessità di sedersi attorno a un tavolo e stabilire quale assetto attribuire a un nuovo ordine multipolare scaturito dal crollo dell’Unione Sovietica.   

Questa narrazione è stata negli anni alla base del successo propagandistico di Putin, aiutandolo a (di)mostrare “al suo popolo” che la Russia ha trovato un ruolo internazionale pivotale non sottovalutabile, il ché - non ci si meravigli – ha attecchito fortemente specie tra le generazioni più mature e ancora reminiscenti della Perestroika.  L’altro filo conduttore della narrazione di Putin è senza dubbio la violenza, ma allo stesso tempo, nella sua abilità di oratore, ha saputo ben sfruttare concetti come la “smilitarizzazione” e la “denazificazione” a suo favore. Dopo la Rivoluzione del 2014, che ha fatto allontanare l’allora presidente Viktor Janukovyc, la Russia, che aveva già accusato gli Stati Uniti e l’UE di aver finanziato e guidato la rivoluzione, non ha riconosciuto il nuovo governo ad interim, chiamando la rivoluzione “colpo di Stato”, prendendo il controllo della Crimea e supportando la rivolta dei separatisti filorussi nelle regioni del Donbass. I separatisti in Donbass, ricordiamo, si oppongono alla ultradestra nazionalista che nasconde tra le sue file esponenti dichiaratamente estremisti. Questo ha permesso a Putin di strumentalizzare la vicenda a favore delle sue politiche espansionistiche in Ucraina. 

Il discorso di Putin prima dell’invasione e la guerra a cui ha dato inizio è quindi - purtroppo - in linea con quello che può essere l’avvio della propria campagna elettorale nazionalista.  

Al netto di questa breve e non esaustiva analisi, ciò che non possiamo fare, però, è valutare Putin e i suoi discorsi con i parametri liberaldemocratici. Gli stessi giornali l’hanno già definita una “demoratura”, ma non si abbia paura di chiamare le cose con il loro nome, se questo può essere d’aiuto a vederle meglio. 

È naturale, è istintivo, è “facile” gridare alla pace quando scoppia una guerra. Ciò che è difficile, invece, è dar retta a tutto quel frangete pacifista che lo fa pedissequamente ogni giorno della propria vita. Dove sono i pacifisti? Dove sono sempre stati! A fare del loro meglio, cercando di far sentire la propria voce, cercando di ricordare a tutti che la pace si costruisce nel tempo di quiete, non mentre si è in guerra. Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, in un incontro online per approfondire le cause della crisi in Ucraina e per tratteggiare possibili strade di intervento, a partire da proposte di neutralità attiva che il movimento della Pace chiede all'Italia e all'Europa, ha affermato: «La guerra non è un antidoto alla guerra e per avere una de-escalation l’unica strada è demilitarizzare. Per questo servirebbe ascoltare i pacifisti quando non c’è la guerra, perché è lì che si fa la pace».  

È altrettanto lecito e comprensibile, però, caldeggiare che, nell’immediato, il popolo ucraino resista con ogni mezzo. È qui che entra in ballo la responsabilità di tutti, nel non aver imparato dalla storia che le persone come Putin non vanno sottovalutate, che l’invasione della Crimea nel 2014 e la continua escalation di provocazioni che hanno accompagnato quasi 20 anni di propaganda nazionalista, avrebbero meritato forse qualche sanzione allora, invece che qualche titolo sulla stampa estera. È legittima la tirata d’orecchie a una tanto anelata (da una parte di Ucraina) Unione Europea, a un tanto stimato Occidente che “non può” intervenire. La NATO necessita di rinnovamento, come tutto, e questo andava fatto prima, bisogna dirlo. Aspetteremo invece di comprendere quali saranno gli esiti drammatici e sanguinosi di questa guerra, per arrivare al vertice di Madrid di giugno, in cui verrà ridefinito il nuovo concetto strategico della NATO e aspetteremo settembre, per la nomina del nuovo segretario generale. Perché si sa, le scadenze vanno rispettate! 

La storia non insegna niente se non andiamo a studiarla tutti nella stessa scuola della difesa della democrazia, della pace e dei diritti umani. E non è un ossimoro fare questo accostamento, perché ci sono principi con la P maiuscola, che valgono per ciascuno in quanto essere umano, prima ancora che appartenente a qualsivoglia cultura, storia politica e società. Che ciascuno allora si faccia maestro di democrazia, di pace e di tutela dei diritti umani in questa scuola e che utilizzi pure le maniere forti per farsi sentire.  

L’invito allora è a tutti e al Terzo settore in particolare, mobilitiamoci, ognuno a suo modo, ognuno nel piccolo, nel grande, con appelli, donazioni, manifestazioni, piani educativi, corridoi e aiuti umanitari. Noi sappiamo come si fa a fare la pace, noi sappiamo come si dà sostegno a chi ha bisogno, non aspettiamo che le cose si sistemino. Perché finché aspettiamo che abbiano effetto le sanzioni e finché queste cambino il pensiero di persone come Putin e non influiscano, piuttosto, sugli ultimi, sui più poveri, come sempre avviene in questi casi, in Ucraina saranno già morte migliaia di persone.  

Allora, alla domanda “io cosa posso fare?”, rispondiamoci che “fare qualcosa è meglio che non fare niente”. 

 

Foto della manifestazione di domenica 27 febbraio organizzata dalla comunità ucraina a Trento

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