La chiave per il Mezzogiorno sta nella coordinazione tra  pubblico, privato e Terzo settore

“Da qua se ne vanno tutti. Non te ne accorgi, ma, da qua se ne vanno tutti” canta Caparezza in Goodbye Malinconia.  Una triste realtà riferita al nostro Paese, che, a distanza di anni, è ancora valida, e ancor più valida se parliamo di sud Italia. Il PIL del Sud Italia in poco più di venti anni è sceso dal 24% al 22%. La popolazione passa dal 36,3% al 33,8%. Tra il 1995 e il 2019 l’ Italia nel complesso ha perso 1,6 milioni di giovani (passando da poco più di 11 milioni a poco più di 10 milioni) e tutta questa perdita è dovuta ai giovani meridionali. Francesco Pirone, professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Napoli Federico II, sostiene che la soluzione sia nella creazione di una visione condivisa tra pubblico, privato e Terzo settore su obiettivi chiave per la qualità della vita e la crescita inclusiva e sostenibile.

Goodbye Malincònia è una canzone del 2011 ispirata dall'incontro dell'artista Michele Salvemini (in arte Caparezza) con giovani connazionali a Londra. Descrive, giocando sulla metafora di uno Stato ribattezzato Malinònia, la realtà sociale, culturale e politica dell'Italia, terra da cui migrano moltissimi giovani. Condizione ancor più acuita se si rapporta il nord con il sud del nostro Paese.

Un'analisi dei dati Istat dell'Ufficio Studi Confcommercio, ci racconta che, a distanza di anni – dal 1995 a oggi – la situazione non è cambiata e il divario persiste.
Dall'analisi emerge che il focus resta sui temi più ricorrenti che penalizzano da sempre le regioni del Mezzogiorno - burocrazia, micro-illegalità diffusa, accessibilità insufficiente e comparativamente minore qualità del capitale umano - ma con un "sottolineatura" importante: il tema della produttività, quello delle condizioni economiche e sociali di vita e, infine, quello della scelta di risiedere o piuttosto di emigrare, sono strettamente collegati. Negli ultimi 25 anni, la riduzione degli occupati, come conseguenza dello spopolamento (soprattutto giovanile, -1,6 milioni), e i deficit di lungo corso citati sopra, hanno, di fatto, determinato un continuo e progressivo calo del Pil prodotto dal Sud ampliando ulteriormente i divari con le altre aree del Paese. Tra il 1995 e il 2020, infatti, il peso percentuale della ricchezza prodotta da quest’area sul totale Italia è passato da poco più del 24% al 22%, mentre il Pil pro capite è sempre rimasto intorno alla metà di quello del Nord. Tuttavia, nel 2020, l’impatto della crisi da Covid-19 al Sud è stato più contenuto rispetto alle altre aree del Paese che hanno patito maggiormente il blocco delle attività produttive durante la pandemia (Pil -8,4% contro il -9,1% al Nord rispetto al 2019)”.

Come si può, quindi, invertire una rotta che nel tempo si è andata a consolidare? Come sottolinea l'Ufficio “I divari territoriali nelle performance economiche e nella qualità della vita non costituirebbero di per sé un problema centrale di politica economica se fossero meramente accidentali e transitori e, soprattutto, se non conseguissero a una cattiva allocazione delle risorse”.

Francesco Pirone, professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’ Università di Napoli Federico II, in un'intervista per Vita, spiega: “La condizione di perifericità in cui sta scivolando il Mezzogiorno, dipende anche dalla rottura dei legami di solidarietà nazionali. Bisogna guardare ai temi dello sviluppo in maniera plurale. Pubblico, privato e terzo settore devono costruire insieme una visione condivisa su obiettivi chiave per la qualità della vita e la crescita inclusiva e sostenibile”.
Secondo Pirone, la ragione per la quale il Mezzogiorno perde popolazione giovane è legata principalmente a tre fattori: la riduzione delle nascite, l'emigrazione dei giovani e l'incapacità dei territori di essere attrattivi per i flussi in ingresso. E aggiunge - “sulla riduzione della natalità c’è poco da fare nel breve periodo. Quello su cui invece si può intervenire subito è la gestione dei flussi migratori. Le domande da farci sono: "cosa spinge ad andare via?" e "come rendere un territorio attrattivo?". Le risposte in parte potrebbero coincidere e riguardano tutte quelle condizioni sociali che consentono a ognuno di avere la speranza di vivere la vita che desidera. Ricordiamoci poi che il Mezzogiorno è attraversato da flussi migratori in ingresso che potrebbero essere gestiti in una prospettiva virtuosa, di maggiore apertura e inclusione, non soltanto per doverosa solidarietà, ma anche per rivitalizzare la demografia, la società e l’economia. Ma le politiche migratorie di chiusura e i limiti complessivi del sistema di accoglienza non consentono di cogliere questa opportunità. Invece, i flussi migratori sarebbero per noi una risorsa, anche uno spazio per immaginare un’altra prospettiva sociale a cominciare dal contrasto all’invecchiamento demografico”.

Per quanto riguarda, invece, l’aspetto della denatalità, il professore sottolinea che “è l’indicatore di una cultura generale avversa alla genitorialità che si combina con aspetti istituzionali che scoraggiano la natalità, a cominciare dai meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro e della cultura stessa del lavoro, che penalizza soprattutto le donne, a passare poi ai limiti dei servizi di cura, di assistenza socio-sanitaria, scolastici, ricreativi che disincentivano l’esperienza della procreazione. La struttura familista del welfare, così com’è adesso, non sostiene adeguatamente la genitorialità. Non c’è sufficiente sensibilità sul tema dell’infanzia, sulla necessità di sviluppare programmi avanzati di conciliazione vita-lavoro per i genitori. Questo tipo di ragionamento, che guarda alla cultura sociale del Paese e al suo orientamento alla genitorialità, richiede iniziative di sistema, plurali e di lungo periodo che devono puntare alla defamilizzazione e a liberare le donne che sono caricate in misura maggiore della cura dei minori e hanno maggiori fragilità nel mercato del lavoro meridionale”.

Al netto delle debolezze strutturali delle economie meridionali, resta tuttavia il fatto che le politiche pubbliche degli ultimi anni, a patire dalla “regionalizzazione” che ha seguito la modifica del Titolo V della Costituzione del 2001, alle politiche di austerity degli ultimi dieci anni, non solo hanno trascurato il tema dello sviluppo del Mezzogiorno, ma hanno anche ridotto e riorientato la spesa pubblica in altre direzioni. Un'inversione di tendenza, quindi, secondo Francesco Pirone, non è realistica. "Bisogna, invece, ragionare su una prospettiva di sviluppo di medio-periodo, una visione condivisa su obiettivi chiave per la qualità della vita e la crescita inclusiva e sostenibile, partendo da una prospettiva plurale dell’economia. Da un lato bisogna certamente attirare investimenti internazionali e sostenere l’imprenditorialità privata, ma dall’altro bisogna riabilitare l’intervento pubblico che deve essere ripensato in maniera efficiente e in più stretta relazione con il Terzo Settore che può contribuire in maniera significativa agli obiettivi di sviluppo sostenibile, ma soprattutto a colmare i divari di cittadinanza che oggi segnano il rapporto tra Nord e Sud del Paese”. 

Demografia, economia, cittadinanza e diritti, spiega - “sono tutti temi collegati tra loro. Dobbiamo fare uno sforzo per produrre un pensiero in grado di tenerli insieme in un progetto di sviluppo coerente con il mondo contemporaneo. Per questo pubblico, privato e Terzo settore devono pensarsi insieme, senza gerarchie, per immaginare una prospettiva di qualificazione e di crescita della società e dell’economia meridionale all’altezza delle sfide del nostro tempo che è in rapida trasformazione. È prioritario partire dall’economia fondamentale, dalla cura delle persone e dell’ambiente, tenendo al centro i diritti di cittadinanza sanciti costituzionalmente. Bisogna, poi, far attenzione anche al fatto che la condizione di perifericità in cui sta scivolando il Mezzogiorno è anche causata dalla relazione con le aree forti del Paese che oggi è chiaramente segnata dalla rottura dei legami di solidarietà nazionali. Pensiamo a come si è realizzata la “regionalizzazione”, allo sdoganamento degli egoismi territoriali, ai meccanismi distorti di redistribuzione pubblica. Per liberare il Mezzogiorno è necessario abbandonare questa via e orientare gli attori pubblici verso relazioni territoriali più solidali”.



Fonti: Confcommercio, Vita 

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