A volte leggiamo o sentiamo qualcosa, un concetto, una metafora, ecc. e all’improvviso si apre un mondo, “eureka” è ovvio!! “Come ho fatto a non vederlo prima?” E’ quell’ulteriore indizio che porta l’investigatore alla risoluzione di un caso. Ho sentito questa sensazione quando ho letto un post di Simone Cerlini “Che cos'è il lavoro. Un nuovo paradigma per orientare le policy”.

Il lavoro è l’incontro con l’altro. Il luogo dove mettere in discussione me stesso nell’incontro con i bisogni dell’altro. Il concetto della “qualità del lavoro” ha trovato concretezza in varie possibili definizioni, che riguardano la sicurezza (lavoro a tempo indeterminato), le competenze (lavoro qualificato), la remunerazione. Ma uno dei fattori chiave per il giudizio sulla qualità del lavoro è quanto esso contribuisce a rispondere ai bisogni degli altri. [...] Insegnare a lavorare è insegnare ad ascoltare e cogliere il bisogno degli altri e capire come ad esso rispondere. Possiamo ripartire da qui per ripensare le policy sull’occupazione, l’istruzione, la formazione e per immaginare uno sviluppo veramente umano e l’utopia di un futuro non ridotto ad una società narcisistica.

Trovo una coerenza con i cambiamenti registrati negli ultimi decenni nel campo del management aziendale, dove l’attenzione si è spostata gradualmente dalla produzione al prodotto e ora al cliente. 

Se ripensassimo, quindi, il lavoro e lo indirizzassimo non tanto verso il servizio (inteso come prestazione) quanto verso l’effetto che produciamo per e all’utente? Parlo dell’operatività, non delle dichiarazioni di intenti.
É vero, per anni abbiamo ritenuto che pensare al servizio e non al processo fosse già un’innovazione e che, automaticamente, significasse pensare all’utente. 
Non era così automatico, forse, o, comunque, nel corso del tempo, questo automatismo si è perso. Il servizio è così diventato sinonimo di realizzazione (output), mentre all’utente interessa più l’outcome, ossia il cambiamento/effetto che la realizzazione è capace di sprigionare. 
Allora proviamo a mettere al centro del lavoro l’outcome e non l’output.  Ma come si fa? 
In primo luogo, dobbiamo imparare a definire l’outcome, ma non è così facile. Non basta ragionare in termini di analisi dei bisogni, dove siamo espertissimi. Essa, spesso, si ferma ad un tecnicismo che perde di vista la sostanza. 
La questione vera è quanto l’analisi dei bisogni rispecchi la visione (a volte insita nella professionalità) di chi fa la rilevazione o quanto, viceversa, rifletta la percezione diretta dell’utente; ma, attenzione, siamo sicuri che quest’ultima sia realistica e competente? Questione ingarbugliata di “asimmetria informativa”. La risposta sta nella capacità di instaurare un dialogo con il sistema-utenza (di cui spesso stiamo facendo parte) per capire e stabilire insieme quali cambiamenti/effetti servano nella sua vita, quali siano fattibili e a quali condizioni. 
Come possiamo pensare a un nuovo coinvolgimento del sistema utenza nella produzione dei servizi? Gli attori del sistema sono sempre gli stessi? Il concetto di “prosumer” (produttore + consumatore) dell’era digitale ci può essere di aiuto?  Quando e come avviene il dialogo? Dobbiamo ripensare la logica lineare che ci indica di partire con l’analisi dei bisogni, per passare alla progettazione ed, infine, alla valutazione. Per porre al centro l’outcome, dobbiamo elaborare un metodo di lavoro che rimescoli le carte ed accorci i tempi tra analisi, progettazione, azione e valutazione. Tutto ciò presuppone un’organizzazione che faccia propri gli approcci del miglioramento continuo, della visione “glocale” (visone globale/d’insieme e azione locale) e il principio del senso di appartenenza ad una comunità di destino.
Serve combinare flessibilità, controllo, visione d’insieme, autonomia e lavoro di squadra, una bella sfida per il management che finora ha considerato molti di questi obiettivi come antitetici tra di loro.
A questo punto, dobbiamo focalizzare il concetto dell’organizzazione, inteso non tanto come soggetto collettivo (quasi sinonimo di azienda o di un’associazione, ecc.), né come struttura (risultato dell’organizzarsi), quanto come attività organizzatrice, ovvero l’azione finalizzata a trovare forme più adatte per regolare le relazioni lavorative e le interdipendenze tecniche per facilitare il raggiungimento di un risultato (F. Butera, Organizzazione e Società).
Intesa in questo modo, l’organizzazione è, quindi, un processo gestito e, soprattutto, partecipato. Gli input-output di tale processo sono tanti e, in linea di massima, noti agli addetti, ma voglio in questa occasione rimarcare quello meno noto: la creazione di senso (Sensemaking di K. Weick). 
Noi essere umani attribuiamo senso alle nostre azioni specialmente nelle situazioni in cui non basta replicare soluzioni già repertoriate nel nostro cervello, ma quando affrontiamo situazioni nuove. Forse non a caso, nel contesto attuale di elevata incertezza (V.U.C.A., acronimo che indica Voltatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity), il management sembra che ricorra sempre più alla filosofia e alla ricerca del senso del proprio operato (cfr. Ghislain Deslander, A propos du management et d’un problème plus général).  
Chiudo questo post con un suggerimento in merito all’utilità del Codice Etico come punto di partenza per ripensare l’azione organizzatrice e lo sviluppo delle competenze professionali (si veda il seguente articolo) e con una citazione di Swami Sivananda: “L’uomo semina un pensiero e raccoglie un’azione; semina un’azione e raccoglie un’abitudine; semina un’abitudine e raccoglie un carattere; semina un carattere e raccoglie un destino”
Qual è, infine, la risposta al quesito posto nel titolo?  Smartworking o smartorganizing? Entrambi, non possono esistere uno senza l’altro.  A meno che non siamo tra quelli che credono che basti una connessione per parlare di smartworking.

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