Articolo di:
Martina Fumi. Avvocato civilista, consulente aziendale
Theofanis Vervelacis. Sociologo esperto in sviluppo organizzativo
Questo contributo è frutto di riflessioni e chiacchierate informali tra i due autori del post, una collega con competenze giuridiche e uno esperto di processi organizzativi, in occasioni di viaggi e pranzi di lavoro.
Nello specifico, ragionando sull’applicazione del D.Lgs 231/2001, ci si poneva l’ovvia domanda: è un ulteriore adempimento burocratico? La risposta facile è: “dipende”. Quella più difficile però è definire da cosa “dipende”.
Il decreto, come noto, introduce nell’ordinamento italiano “… la responsabilità degli Enti per gli illeciti conseguenti alla commissione di un reato. Si tratta di un sistema di responsabilità autonomo, caratterizzato da presupposti e conseguenze distinti da quelli previsti per la responsabilità penale della persona fisica. In particolare l’Ente può essere ritenuto responsabile se, prima della commissione del reato da parte di un soggetto ad esso funzionalmente collegato, non aveva adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e gestione idonei ad evitare reati della specie di quello verificatosi. Quanto alle conseguenze, l’accertamento dell’illecito previsto dal Decreto 231 espone l’ente all’applicazione di gravi sanzioni, che ne colpiscono il patrimonio, l’immagine e la stessa attività” 1.
É evidente che, pur utilizzando un linguaggio tecnico giuridico, si parla di comportamenti organizzativi e, per essere ancora più espliciti, di comportamenti di persone all’interno di contesti organizzati. Il decreto si applica infatti attraverso l’elaborazione di un Modello Organizzativo Gestionale (MOG) che include a sua volta un Codice Etico o di comportamento.
A questo punto la dimensione giuridica e quella organizzativa si intrecciano.
L’approccio giuridico privilegia, se così si può dire, l’aspetto sanzionatorio in quanto “un modello potrà dirsi attuato in modo efficace solo quando azionerà l’apparato disciplinare per contrastare comportamenti prodromici al reato” 2.
L’approccio organizzativo mira invece più alla prevenzione che non è però quella, implicita nella logica hobbesiana, della paura della punizione quanto quella dell’educazione ad un’etica di lavoro e/o dell’addestramento ad una procedura/metodo di lavoro.
Da tenere presente in quest’ultima prospettiva che l’evoluzione dei modelli organizzativi è segnata da un graduale abbandono della logica della struttura a favore di quella dei processi. I comportamenti organizzativi non sono quindi più definiti a priori sulla base di organigrammi, funzionigrammi e mansionari, ma agiti nei processi, dove la circolarità tra obiettivi, azioni e risultati intermedi raggiunti detta le condizioni e il quadro entro cui si sviluppa l’attività pratica degli attori organizzativi, sempre più autonomi, competenti e responsabilizzati.
All’interno di questo processo evolutivo dei modelli organizzativi il codice etico che dovrebbe “promuovere, raccomandare e vietare” comportamenti acquista una particolare valenza. Il potere prescrittivo che sta nella norma (prevenzione in termini giuridici) va integrato (non sostituito) con quello della mission e dei valori aziendali. La sempre maggiore autonomia degli attori trova il suo naturale perimetro nel quadro definito appunto dalla mission, dai valori aziendali e dal know how operativo. Tale perimetro si esprime attraverso la responsabilizzazione degli attori stessi, anche perché diversamente la maggiore autonomia rischierebbe di aumentare le forze centrifughe e di minare la coesione aziendale.
In tal senso sembra un percorso interessante quello dell’accostamento del MOG e del Codice Etico con il Bilancio Sociale e, più in generale, la rendicontazione sociale e l’autocontrollo previsti dalla riforma del terzo settore (D.Lgs 117 del 2017).
A scanso di equivoci, siamo consapevoli che si tratta di due strumenti diversi con finalità ben distinte. Tuttavia hanno un denominatore comune che è forte: entrambi puntano infatti a “formare” gli attori affinché adottino comportamenti funzionali all’organizzazione. Il Bilancio Sociale si rivolge a vari stakeholder tra cui anche il personale interno. Ma gli obiettivi posti da entrambi gli strumenti passano dalla governance aziendale, e non è un caso che entrambi gli strumenti richiedano l’elaborazione di appositi modelli organizzativi. Siamo convinti che, pur elaborando due modelli distinti come prescritto dalla normativa (D. Lgs. 231 e riforma del terzo settore D. Lgs 117), sia possibile individuare i punti in comune onde evitare l’eccessiva burocratizzazione proprio in un periodo in cui si delineano modelli organizzativi che riducono al minimo indispensabile le funzioni di staff. Sarebbe quindi anacronistico “gonfiare” i servizi di staff solo per adempiere a obblighi normativi.
La pista di lavoro consiste nell’individuare, come già detto, i punti in comune dei due modelli organizzativi in questione in modo da:
- mirare ad un sistema di governance integrato;
- evitare le duplicazioni nella stesura della documentazione;
- comunicare valori e principi aziendali omogenei nei diversi campi di applicazione (in molti casi aziendali visionati i valori enunciati nel Bilancio Sociale non sono riconducibili ai principi generali riportati al Codice Etico);
- razionalizzare l’azione formativa dei dipendenti (attraverso la realizzazione di un corso sul D. Lgs. 231 e un altro sul Bilancio Sociale, i cui contenuti si potrebbero in parte sovrapporre).
Per concludere le nostre riflessioni l’aspetto più interessante è rappresentato dal fatto che in entrambi gli strumenti la dimensione etico-valoriale acquisti una rilevanza particolare nel plasmare i comportamenti dei dipendenti in linea con la mission aziendale.
Ovviamente non è l’unica dimensione presa in considerazione, ma si pone sullo stesso piano e con pari dignità rispetto a quella sanzionatoria e a quella tecnico-procedurale. Siamo ancora a ribadire che nel periodo attuale, dove i modelli di stampo funzionalista (che consistono nel definire a priori il percorso e poi nel monitorarlo, misurando gli scostamenti) lasciano il posto a quelli evolutivi, dove è la competenza dell’operatore (o meglio dire il team degli operatori) che di volta in volta corregge il tiro e ridefinisce e contestualizza gli obiettivi, mentre la componente valoriale è quella che integra e completa quella tecnica (la competenza appunto) e che fornisce la bussola per orientarsi nella complessità.
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1 Vedi “Linee Guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, Confindustria 2002”
2 Si rimanda nuovamente alle Linee Guida citate nella nota precedente.