Oggi i contesti in cui le organizzazioni di terzo settore (OTS) si trovano ad agire presentano una serie di questioni che interrogano da vicino l’operatività dei servizi: minori risorse disponibili; aumento delle vulnerabilità; istanze sociali inedite ed emergenti; preminenza delle retoriche dell’innovazione, dell’eccellenza, dell’autosufficienza. Nella complessità di questo scenario, si fa pressante l’attesa – se non la richiesta esplicita - di prestazioni capaci di offrire soluzioni “certe”, possibilmente standardizzabili e capaci di garantire una prospettiva di comprensione e controllo.
L’esperienza quotidiana, tuttavia, mostra come tale prospettiva, a tutti gli effetti, sia di corto respiro, figlia di un paradigma che vedeva il terzo settore nel ruolo di gestore di servizi codificati su bisogni chiaramente - e, non di rado, unilateralmente - individuati. Di fatto, molti servizi alla persona incontrano sempre più frequentemente problematiche inedite che, in qualche modo, trascendono il loro mandato istituzionale: legate alla vivibilità dei quartieri, all’indebolimento dei legami di prossimità, al dialogo tra culture, all’impoverimento, e altro ancora. Il grande merito, da questo punto di vista, sta nel coraggio di di non “chiudere la porta”, di lasciarsi interrogare: questa scelta, sovente, configura i servizi alla persona come osservatori di frontiera preziosi e offre alle organizzazioni che li gestiscono la possibilità di porsi come interpreti autorevoli dei fenomeni sociali che attraversano i propri territori di riferimento.
Il valore di questa funzione sociale, tra l’altro, è indirettamente riconosciuto anche dal codice del terzo settore (D. Lgs. 117/2017), laddove si dichiara di voler favorire la capacità delle OTS di offrire un “apporto originale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” (art. 2).
L’investimento sulla generatività delle pratiche sociali si pone in coerenza con l’assunzione di tale funzione: è una scelta di policy formativa che scommette sulla possibilità di valorizzare e codificare i saperi “di frontiera”, distintivi e qualificanti, generati nelle esperienze di lavoro sociale, riconoscendone l’originalità e la valenza strategica, tanto nel progettare l’operatività quotidiana, quanto nell’orientare possibili riposizionamenti nell’interlocuzione con soggetti terzi, istituzionali e non.
Si tratta di saperi profondamente “situati”, legati all’esperienza dell’agire quotidiano delle persone dentro ai propri contesti di riferimento. Non a caso, la reputazione e la credibilità di un’organizzazione di terzo settore sul territorio è quasi sempre legata al riconoscimento di un legame fiduciario con i professionisti dell’organizzazione che dentro quel territorio operano.
L’investimento nella generatività delle pratiche non può essere estemporaneo, né tanto meno affidato al caso o alla buona volontà dei singoli. L’attivazione di una comunità di pratiche, da questo punto di vista, richiede una pianificazione precisa, oltre ad alcune specifiche attenzioni di metodo. Le ricadute in termini formativi possono risultare significative a più livelli, sia dal punto di vista organizzativo (creazione di comunità professionali riflessive, capaci di alimentare il discorso pedagogico dell’organizzazione; sviluppo di percorsi di carriera orizzontali; rinforzo del senso di appartenenza all’organizzazione), sia per quanto riguarda i percorsi di crescita professionale (maggiore capacità di fronteggiare situazioni complesse; consolidamento di un’attitudine riflessiva; migliore consapevolezza di ruolo e delle competenze agite; sviluppo di nuove modalità di lavoro in equipe, ecc.).
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