Dato che il pianeta è chiuso per restauro, ne approfitto per fare qualche riflessione sullo smartworking, che rappresenta sicuramente uno degli argomenti di maggiore attualità in questo periodo.  

In primo luogo, domandiamoci cosa intendiamo per smart? Molti si riferiscono alla possibilità di lavorare da remoto (che poi di fatto spesso coincide con la propria abitazione), ovvero in telelavoro. Ma è solo questo? Basta l’impiego di una tecnologia che ci consenta l’accesso remoto ad un server per caratterizzare un lavoro come smart? Forse si, forse no, proviamo a fare un po’ di chiarezza.
Diciamo che l’aggettivo “intelligente” può riguardare differenti dimensioni quali il contenuto del lavoro e la natura del compito, le modalità organizzative di svolgimento, i supporti tecnologici, lo sviluppo del know how necessario, l’ambiente “sociale” all’interno dell’azienda, l’impatto sociale. Il mio scopo non è quello di esaminare in maniera sistematica e approfondita tutti questi aspetti; mi limito a fare alcune riflessioni e offrire qualche indicazione utile soprattutto a chi non è già esperto. 

Per quanto riguarda il contenuto, siamo certi del fatto che tutti i lavori abbiano pari dignità, ma se parliamo di singoli compiti e attività, siamo sicuri che tutti abbiano un senso? Molti di noi, a volte, si domandano se alcune attività – operazioni svolte nel quotidiano – siano realmente utili. Ma intanto si fanno, perché da un punto di vista organizzativo a volte è più complicato non svolgerla.
Consiglio la lettura del testo “Bull Shit jobs” di David Graeder, il quale stima che circa le metà delle attività lavorative che vengono svolte nel mondo sono inutili, in quanto senza senso.  La ricerca di Graeder pur non basandosi su una analisi “oggettiva”, ma sulla percezione e sull’esperienza diretta di chi svolge il lavoro che lo considera con o senza senso, il ragionamento complessivo è convincente. Da tenere presente che la maggior parte dei lavori dichiarati senza senso sono riconducibili a quelle funzioni aziendali che definiamo di staff. 
Attenzione: in questo periodo di telelavoro le attività che si prestano ad essere svolte da remoto sono in prevalenza quelle di staff, non certo quelle della “produzione” (possibili solo in rari casi di contesti di automazione industriale avanzata). - La nota distinzione tra line e staff va intesa che come nelle scatole cinesi, ogni lavoro include al suo interno entrambe le dimensioni.  Voglio dire che per un ufficio di staff ad esempio l’Amministrazione, la “line” coincide con quello che è “staff” per l’intera azienda. Allo stesso tempo però anche all’interno dell’ufficio Amministrazione possiamo distinguere attività di “staff” e di “line”. Lo stesso ragionamento vale se consideriamo una filiera o un network “produttivo” dove esistono aziende specializzate in funzione di staff ma che per loro sono il core business e quindi line.-
E’ azzeccata a questo proposito la barzelletta che gira proprio in questi giorni di un pilota d’aereo che conclude il suo abituale messaggio di benvenuto a bordo informando i passeggeri che è in telelavoro, seminando ovviamente il panico.

Prima riflessione: se vogliamo lavorare o far lavorare i nostri collaboratori in modalità “smart” la prima cosa da fare è domandarsi se tutte le attività hanno un senso e una vera utilità nell’economia complessiva dei processi lavorativi. Proprio in questo periodo siamo chiamati, tutti noi dell’esercito degli smart worker, a continuare a svolgere attività lavorative, fieri perché utilizziamo la tecnologia più avanzata e perché non “rimaniamo fermi”. Ma in questo si nasconde il reale rischio di svolgere in maniera intelligente attività inutili e sarebbe davvero il colmo impiegare modalità smart per questa finalità.

Per quanto concerne le dimensioni di carattere più organizzativo, vediamo come possiamo far diventare “smart” il nostro lavoro e quello dei nostri collaboratori.  
Un aspetto importante è garantire una soddisfacente “produttività”, ovvero fare in modo di organizzare in maniera efficiente il lavoro che potrà e dovrà essere svolto da remoto dai nostri collaboratori.  In questo periodo ho parlato con molti direttori e coordinatori, i quali mi hanno confessato la loro difficoltà connessa a questo aspetto. 

In primo luogo, bisogna distinguere se stiamo parlando di un lavoro di tipo professionale, caratterizzato da un alto livello di autonomia (nel decidere obiettivi, tempi, strumenti, metodologie, ecc.) e da interdipendenze programmabili e gestibili dal professionista stesso o di un lavoro più “esecutivo”. Nel primo caso, lo smartworking  non presenta particolari difficoltà e interessa la maggior parte delle persone che lo applica, non soltanto in questo periodo di chiusura delle sedi.  
Proviamo, quindi, a fare qualche ragionamento concernente i ruoli più “esecutivi” e ponendosi nell’ottica di chi deve organizzare il lavoro e assegnare, conseguentemente, compiti e stabilire tempi.
Gli elementi base di carattere organizzativo da considerare sono:

  • il livello di autonomia operativa, che misura quanto l’operatore può lavorare senza aver bisogno di ricevere indicazioni dai suoi superiori; l’autonomia dipende, in particolare, da quanto l’attività da svolgere necessiti di decisioni basate su valutazioni da effettuare in itinere ed è solo in parte collegata al livello gerarchico. Si sta parlando, infatti, di autonomia operativa e non decisionale, quest’ultima si collega, solitamente, ad un alto livello gerarchico (che, per semplicità, facciamo rientrare questo caso nel lavoro professionale descritto in precedenza).  E’ facilmente intuibile che più alto è il livello di autonomia operativa, più facile risulta svolgere il compito da remoto;
  • la proceduralizzazione dei compiti, che riduce la necessità, per l’operatore, di ricorrere alla richiesta di “aiuto”; la procedura standardizzata, ormai normalmente anche informatizzata, facilita il compito dell’operatore nello svolgimento del suo operato. I pagamenti tramite remote banking, ad esempio, si possono svolgere seguendo semplicemente una specifica sequenza di operazioni e possono essere svolti solo da chi possieda le credenziali di accesso stabilite a priori. Analogamente, l’invio di una newsletter o lo smistamento della posta elettronica;
  • l’interdipendenza con altri ruoli nello svolgimento dei propri compiti misura la necessità di coordinamento con i propri superiori e/o con gli altri colleghi; la bassa interdipendenza aumenta, ovviamente, il livello di autonomia operativa. Con la tecnologia oggi disponibile (le piattaforme anche gratuite per teleconferenze abbondano) non è certo impossibile gestire anche le interdipendenze, ma, sicuramente ciò rende il processo più difficoltoso, se non altro perché spesso richiede uno scambio di informazioni “sincronico” (tutti i colleghi telelavorano contemporaneamente), che non sempre è possibile;
  • la pianificabilità delle attività, che ricorda il “vecchio” Management by Objectives  (MbO), agevola l’assegnazione ai collaboratori dei compiti e delle scadenze, in maniera tale che essi possano lavorare autonomamente, senza perdere di vista il risultato e il senso del lavoro collettivo. 
    Il tipo di processo lavorativo e la natura degli output, che determina il fabbisogno di coordinamento e la natura delle interdipendenze organizzative. Più i processi e i relativi output sono in “parallelo” più facilitano l’autonomia operativa in quanto appunto riducono la necessità di scambiarsi informazioni e output intermedi. 

E’ facilmente intuibile come tra le attività di natura più esecutiva, si prestano maggiormente al telelavoro quelle più proceduralizzabili, a bassa interdipendenza, svolte in “parallelo” tutte condizioni che fanno aumentare l’autonomia operativa. Se tutto è ulteriormente rafforzato da una buona capacità pianificatoria e da una cultura di MbO allora il telelavoro può essere organizzato più facilmente. 
E’, infine, da considerare, ovviamente la dotazione tecnologica dell’organizzazione, che consenta una rapida ed efficiente connessione internet ai server aziendali e, quindi, l’accesso ai dati.
Ma tutto ciò, possiamo chiederci, è compatibile con i modelli operativi e organizzativi di oggi, che tendono a basarsi su soluzioni più fluide, a modelli più a geometria variabile? 
Ormai, per una serie di ragioni contestuali che non possiamo passare in rassegna in questa occasione, le strutture e le logiche pianificatorie e lineari lasciano il posto a formule organizzative basate più sula navigazione a vista del tipo “iniziamo e vediamo” (think global act local and now, nella migliore delle ipotesi). Queste ultime, però, alzano le interdipendenze, rendono l’operatività permeata da “input” decisionali che, a loro volta, richiedono processi più “consultivi”-La necessità di “sentirsi” e di “confrontarsi” con più persone- e spingono al lavoro di gruppo, se non addirittura al networking.  
Sottolineo nuovamente che con la tecnologia disponibile si fa fronte a queste esigenze, ma non va ignorato un altro fattore importante, che sta emergendo proprio in questo periodo di lockdown, nostro malgrado: l’azienda è uno spazio di socializzazione, di apprendimento e di costruzione dell’identità individuale e collettiva. 
Seconda riflessione: tutto ciò non vuol dire che non è opportuno il telelavoro. Vuol dire semplicemente che è opportuno, a partire dalla sperimentazione del telelavoro obbligata a causa del lockdown del coronavirus, far tesoro dell’esperienza e utilizzare il telelavoro come un’opzione valida per determinate attività e con effetti benefici su molti fronti (ambientale, conciliazione dei tempi, stress lavorativo, ecc.) da integrare perfettamente con il lavoro in sede. Perché, ad esempio, non ipotizzare forme di telelavoro parziale, per alcuni giorni in settimana? Molti enti già lo fanno.
A questo punto, risulta, forse, più chiaro come il telelavoro, (dopo la verifica del senso) sia solo il primo passo verso il lavoro smart. I passi successivi hanno a che fare con l’organizzazione del lavoro, che sia da remoto o in sede, in maniera tale da renderlo fonte di apprendimento e di intelligenza collaborativa. Parliamo di modelli organizzativi che si basano sulle competenze delle persone nel gestire in una logica evolutiva i processi, l’autonomia, la responsabilità e la responsabilizzazione e l’apprendimento continuo e l’innovazione diffusa. A quel punto è la natura del lavoro che è smart e non solo e non tanto le sue modalità di svolgimento.
Siamo nel pieno del paradosso secondo il quale, in questo periodo di operatività orientata dalla flessibilità e dalla resilienza, avremmo dovuto avere minore bisogno della “risorsa” organizzazione, invece, alla riprova dei fatti, ci accorgiamo che la stessa è una risorsa fondamentale. Questo succede perché, nell’immaginario collettivo, al termine “organizzazione” si associa automaticamente concetti come quelli di struttura, organigramma e prescrittività, elementi di cui oggi abbiamo ancora bisogno, ma ai quali dobbiamo attribuire nuovi significati. 
In conclusione: in presenza di complessità e di dinamicità dei contesti, quando nascono forme (auto)-organizzative plurime, evolutive e a geometria variabile, lo smartworking è una risorsa importante, ma allo stesso tempo anche un risultato della gestione efficace dei propri processi organizzativi e di governance. 


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