È delle scorse settimane l'auspicio – avanzato dai commercialisti italiani – che sotto il profilo normativo venga
tutelato appieno il diritto degli enti non profit di svolgere attività di natura commerciale, seppur entro limiti circoscritti e secondo modalità ben definite.
La proposta va accolta sicuramente con favore se e nei limiti in cui dette attività economiche
rappresentino una forma di autofinanziamento, e quindi siano strettamente funzionali (e cioè strumentali) al perseguimento delle finalità istituzionali dell'ente. Ma non oltre.
In questo senso la normativa di attuazione della riforma del Terzo Settore (
legge 6 giugno 2016, n. 106) rappresenta un'occasione estremamente importante, da non perdere.
Si ritiene quindi che soltanto sulla base di tali premesse potranno essere valorizzati in concreto taluni principi introdotti dal provvedimento menzionato: basti riprendere, ad esempio, un passaggio contenuto nel primo articolo della legge, laddove viene perimetrato con efficacia l'ambito di operatività del variegato universo del Terzo Settore. Con tale concetto, invero, si intende “
il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che (…) promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”.
Proprio quest'ultima parte del dettato normativo sembra aggiungere un qualcosa che prima forse non era mai stato affermato così chiaramente a livello normativo: il Legislatore utilizza infatti l'espressione “produzione e scambio di beni e servizi” per
consacrare una volta per tutte la possibilità per il non profit di “entrare” nel mercato. Ma ciò richiede da un lato regole certe, dall'altro condotte irreprensibili da parte degli addetti ai lavori.
A questo punto non ci resta che aspettare la pubblicazione dei decreti attuativi per delineare meglio quali nuove opportunità si apriranno per le organizzazioni non profit.