L'organizzazione per i diritti umani ha anche sollecitato i principali fornitori di armi a Myanmar, in particolare Cina e India ma anche Russia, Serbia, Ucraina e i paesi dell'Asean, a proibire il coinvolgimento di proprie agenzie, compagnie e singole persone nella fornitura, diretta o indiretta, di materiale militare e di sicurezza, munizioni e consulenza, compresi i trasferimenti che vengono definiti "non letali".
"Alla giunta militare di Myanmar deve arrivare urgentemente un messaggio inequivoco: la brutale repressione delle manifestazioni e il crescente uso della forza eccessiva non saranno tollerati né alimentati in alcun modo dalla comunità internazionale" - ha dichiarato Irene Khan, Segretaria generale di Amnesty International.
Mentre le fonti ufficiali parlano di nove persone morte, Amnesty International teme che il numero effettivo delle vittime possa essere più alto. Nell'ultima settimana, le forze di sicurezza di Myanmar hanno picchiato, arrestato e ucciso i manifestanti, fatto irruzione nei monasteri e lanciato gas lacrimogeni sulla folla. Nella sola Yangon, si ritiene siano state arrestate almeno 1000 persone. Vi è il grande rischio che la violenza dell'esercito possa aumentare di fronte alle continue manifestazioni in favore di riforme democratiche.
"È inaccettabile che gli Stati continuino a fornire armi a un governo già responsabile di gravi e continue violazioni dei diritti umani e che ora ricorre alla violenza contro manifestanti pacifici" - ha proseguito Khan. "L'embargo che sollecitiamo dovrà rimanere in vigore fino a quando il governo di Myanmar non avrà preso misure concrete per proteggere i diritti umani e rilasciato tutti i prigionieri di coscienza".
Inoltre, l'embargo che l'Unione europea (Ue) e gli Usa hanno imposto, rispettivamente nel 1988 e nel 1993, sulle forniture dirette e indirette di materiale militare a Myanmar, dovrà essere rigorosamente sorvegliato.
A Myanmar le manifestazioni continuano, in un contesto di gravi e massicce violazioni dei diritti umani ampiamente diffuse già prima dell'attuale crisi: le esecuzioni extragiudiziali; la tortura, ampiamente praticata in carcere; la prolungata detenzione di oltre 1160 prigionieri politici e quella di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, e di altre figure di primo piano dell'opposizione; la soppressione della libertà d'espressione in tutto il paese; il ricorso ai lavori forzati; l'arruolamento dei bambini soldato nelle forze armate; le operazioni militari nell'est dello Stato di Kayin (Karen), che secondo il diritto internazionale costituiscono crimini contro l'umanità.
Le autorità di Myanmar continuano a negare l'accesso in buona parte del paese agli osservatori indipendenti e alle organizzazioni internazionali per i diritti umani.