I mutamenti economici sono valutati dai cittadini utilizzando alcuni princìpi intuitivi che potremmo chiamare ‘morale del senso comune’. La morale economica del senso comune si fonda principalmente su due intuizioni: la prima dice che è giusto distribuire la ricchezza in modo (più o meno) uguale fra i membri di una comunità. La seconda dice che è giusto che chi ha prodotto una particolare risorsa abbia la possibilità di utilizzarla (più o meno) come meglio crede. (Scopri di più su:
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Il ‘più o meno’ è importante: serve a ricordarsi che si tratta di principi generici che, presi alla lettera, entrerebbero molto spesso in conflitto fra loro. Se alcuni individui sono più capaci o semplicemente hanno i mezzi per produrre più ricchezza di altri, per esempio, è possibile che la distribuzione di risorse diventi molto diseguale all’interno di una società. D’altro canto, è difficile o impossibile preservare l’uguaglianza senza violare, almeno in parte, il principio della produttività. Un compito importante della politica è dunque la conciliazione di questi due princìpi, trovando dei compromessi che salvino in parte l’uguaglianza senza mortificare troppo il principio di produttività.
Le teorie politiche ed economiche di destra e di sinistra hanno nel corso del tempo fornito diversi tentativi di conciliazione – sbilanciati verso il principio di produttività, nel caso della destra, piuttosto che quello di uguaglianza, nel caso della sinistra. L’esempio recente più eclatante è il best-seller di Thomas Piketty, Il Capitale nel Ventunesimo Secolo, che nel 2014 ha scalato tutte le classifiche dei libri più venduti nel mondo. Piketty, un economista della Paris School of Economics, nel corso di pochi mesi è diventato un punto di riferimento per la sinistra progressista. La sua tesi, sostenuta da centinaia di pagine di grafici e tabelle, è che la disuguaglianza ha raggiunto nel corso degli ultimi tre decenni un livello analogo a quello dell’inizio del Novecento, e che è dunque necessario operare una drastica redistribuzione della ricchezza simile a quella avvenuta intorno alla metà del secolo scorso grazie alla creazione del welfare state in Europa e negli Stati Uniti (con l’aiuto, purtroppo, delle due guerre mondiali).
Il Capitale nel Ventunesimo Secolo è un tipico saggio di scienza sociale, mirato a descrivere e spiegare le dinamiche dell’accumulazione della ricchezza.
Piketty in altre parole ci vuole convincere che la disuguaglianza è aumentata a dismisura, senza spiegarci perché questo sia un male. All’inizio del saggio Piketty dichiara candidamente che non intende fornire nuovi argomenti a favore dell’egalitarismo, e nel corso del libro mantiene la parola. Allo stesso tempo, non nasconde i suoi orientamenti politici e morali – la sua passione per il principio di uguaglianza è evidente e pervade il libro dalla prima all’ultima pagina.
Secondo alcuni critici questa scelta indebolisce il messaggio di Piketty. La ragione di fondo è che si tratta di un messaggio unilaterale: poiché la morale economica del senso comune è fondata su due princìpi, anche le proposte politiche devono offrire un compromesso ragionevole fra questi due princìpi. Un’argomentazione che, partendo dalla constatazione della disuguaglianza, conclude che bisogna ridurre la disuguaglianza, manca di un tassello fondamentale: perché dobbiamo ridurre la disuguaglianza? Soprattutto, perché dovremmo sacrificare ulteriormente il principio di produttività? La domanda non è se ridistribuire – lo facciamo già – ma piuttosto se dobbiamo redistribuire ancora di più di quanto non facciamo già adesso.
Questa domanda richiede una competenza non soltanto economica, ma anche filosofica. Da una parte sembra legittimo concedere a un economista che la filosofia non fa parte del suo mestiere. Dall’altra, viene da dire che non gliel’ha ordinato il medico: il ruolo di paladino dell’uguaglianza comporta sia oneri che onori. Tanto più che Piketty continua a pubblicare libri rivolti al grande pubblico, nei quali chiama governi ed elettori alle armi contro la disuguaglianza.
Capitale e disuguaglianza (Bompiani, 2017) è una raccolta di articoli comparsi negli ultimi anni su quotidiani di prestigio come Le Monde e Libération, ma anche su blog e altri siti meno facilmente rintracciabili. Anche se l’attività giornalistica sembra l’occasione ideale per lasciarsi andare, Piketty è ancora una volta reticente dal punto di vista filosofico. Gli articoli sono dedicati a temi importantissimi, dalla democratizzazione della Cina alla riforma dell’Unione Europea, passando per la tassazione dei capitali nel mondo globale, e alla disuguaglianza nei paesi emergenti come l’India e il Sud Africa. Piketty esamina e propone diverse soluzioni concrete quali le imposte di successione, la tassazione del capitale immobiliare, il finanziamento pubblico di sanità ed educazione, ma non ci dice nulla riguardo alla sua filosofia politica e morale.
Il linguaggio che utilizza ci fornisce qualche indizio. L’uso del termine ‘appropriazione’, per esempio (“possiamo stimare che il 10% degli individui più privilegiati … si appropri del 60-70% dei redditi”, p. 9) suggerisce che per Piketty la distribuzione delle risorse sia sostanzialmente un gioco a somma zero: come la torta è stata prodotta non ha importanza, quello che conta è chi si mangia le fette. Ma questo approccio, come abbiamo detto, porta a ignorare uno dei pilastri della morale del senso comune. Perché è giusto togliere fette di torta ancora più grandi a coloro che hanno lavorato per produrle?
Forse per Piketty il principio di uguaglianza è un postulato primitivo, che non richiede una giustificazione ma solo un’accettazione spontanea e intuitiva. Egalitaristi si nasce, non si diventa. Questa risposta è meno ingenua di quanto si pensi: diversi filosofi politici hanno sostenuto che non è possibile giustificare una teoria egalitaria senza appellarsi a qualche principio più fondamentale che contiene già un nocciolo di egalitarismo. Il problema di questo approccio, purtroppo, è che non ci dà nessuna indicazione su come dovremmo comportarci quando il principio di uguaglianza si scontra con altre intuizioni morali, come quella sottostante al principio di produttività. Qual è il giusto compromesso? Quando, e soprattutto quanto ci è permesso sacrificare un principio per salvare almeno in parte l’altro? Gli egalitaristi come Piketty non sostengono che bisogna cominciare a redistribuire. Sostengono che bisogna redistribuire la ricchezza molto di più di quanto già facciamo adesso.
Per dare un’idea dell’entità del problema, ecco alcune cifre che non troverete nei libri (peraltro pieni di statistiche) di Piketty. Nella maggior parte dei paesi a economia avanzata, la stragrande maggioranza dei servizi pubblici sono pagati dai cittadini più ricchi. In Italia, per dare un’idea (ma funziona così più o meno dappertutto) circa il 10 percento dei cittadini paga metà delle imposte sul reddito. Aggiungendo a questi un altro terzo dei cittadini più abbienti, superiamo il 90 percento delle imposte che servono a finanziare l’amministrazione e i servizi pubblici. Un calcolo più preciso dovrebbe tenere conto di altre imposte meno progressive, come l’IVA, ma se consideriamo che i ricchi consumano più dei poveri (e quindi pagano più tasse) la sostanza non cambia. La metà degli italiani meno abbienti riceve educazione, sanità, polizia ed esercito, giustizia, e molti altri servizi pubblici (gran parte dei trasporti, per esempio) quasi gratis. Tutti questi servizi sono offerti dalla parte più ricca della popolazione.
Il commento cinico (di destra) è che allora i poveri non se la passano così male. Ma il cinico di destra sbaglia – queste cifre devono indurci ad altre riflessioni. Esse ci obbligano a prendere più seriamente la domanda fondamentale che ogni politico progressista deve porsi oggi: come possiamo chiedere a chi sta dando già molto di dare ancora di più? Quali argomentazioni possono convincere una parte non piccola dei cittadini che è necessario fare uno sforzo maggiore per ridurre le disuguaglianze che si sono accumulate nel corso degli anni?
Si tratta di una domanda cruciale per un politico che deve conquistare voti alle prossime elezioni. Ed è una domanda particolarmente difficile in un paese nel quale i ricchi spesso non si sentono affatto tali, o percepiscono il proprio benessere come legittimo e fragile allo stesso tempo (‘ho lavorato tutta la vita per godermi questi risparmi, nessuno ha diritto di togliermeli’). I paesi occidentali invecchiano, fra l’altro, e i benestanti sono spesso persone anziane che non avranno un’altra possibilità di costruirsi un patrimonio.
Visto dal punto di vista globale, il problema diventa ancora più spinoso. I cittadini europei e americani sono parecchio ricchi in confronto ai cittadini dei paesi in via di sviluppo. Quando questi ultimi si trasferiscono in Occidente per cercare lavoro, hanno spesso redditi bassi, e di conseguenza contribuiscono poco o niente al finanziamento dei servizi pubblici (un discorso diverso vale per le pensioni: senza il contributo degli immigrati, il nostro sistema pensionistico sarebbe ancora più sbilanciato e difficile da sostenere nel lungo periodo). Poiché questi nuovi cittadini sono considerati alla stregua di estranei da molti nativi, la domanda diventa ancora più scottante: perché i ‘nostri’ ricchi dovrebbero dare ai ‘loro’ poveri?
È chiaro che manca qualcosa – c’è un buco etico e politico al centro di qualsiasi politica redistributiva che i partiti progressisti intendano implementare. Ma forse esiste un modo per riempirlo. Alcuni filosofi hanno provato a sviluppare argomentazioni che non dipendono da postulati egalitaristi. Secondo l’egalitarismo democratico, vogliamo più uguaglianza non perché l’uguaglianza sia un bene in sé, ma piuttosto perché è un bene strumentale – indispensabile per avere altri beni che ci stanno a cuore. Quali sono questi beni? La solidarietà, per esempio, che permette di reagire collettivamente ai pericoli che minacciano la nostra società. La libertà personale, che sarebbe minata da classi elitarie divenute troppo potenti rispetto ai cittadini comuni. La pace e la sicurezza, che verrebbero a mancare qualora una larga parte della popolazione non fosse in grado di accedere al benessere dei pochi. Il senso di autostima, che ci permette di trattare ogni altro cittadino come un pari. E più in generale tutti gli ingredienti che permettono alla democrazia di funzionare a dovere.
Un modo intuitivo per spiegare l’importanza dell’uguaglianza è confrontare le democrazie occidentali con quelle società dove la democrazia si è affermata in modo imperfetto e con fatica. Le plutocrazie russe, arabe o sudamericane – dove pochi ricchi vivono barricati in villaggi di lusso difesi da milizie private, circondati da milioni di emarginati – sono l’incubo dal quale ci vuole proteggere l’egalitarista democratico. A differenza del fondamentalista, l’egalitarista democratico riconosce la validità del principio di giustizia produttiva. La ragione per la quale vogliamo avere più uguaglianza non è necessariamente che i ricchi si sono ‘appropriati’ di una ricchezza che non gli appartiene, e nemmeno che l’uguaglianza è un bene in sé. La ragione è che una disuguaglianza eccessiva rischia di privarci di tante cose che amiamo e che diamo per scontate – come il piacere di dialogare alla pari con persone di diversa estrazione sociale, il privilegio di camminare per strada senza paura, e di godere insieme agli altri delle libertà che la socialdemocrazia ci ha regalato.
‘Vendere’ l’egualitarismo democratico non è facile: vuol dire vendere uno stile di vita totale, non un principio morale. Richiede ai politici uno sforzo di narrazione, e ai cittadini uno sforzo di immaginazione. Significa chiedere ai cittadini se preferiscono la Svezia al Messico (o alla Russia, o all’Arabia Saudita). Vuol dire raccontare una storia complessa sui benefici del vivere in una società democratica, rispetto a una società gerarchica e classista. Non troverete questa storia nei libri di Piketty, ma sarà bene che qualcuno cominci a raccontarla. Soltanto usando la nostra immaginazione riusciremo convincere tutti noi (più o meno privilegiati) che corriamo un grande pericolo se lasciamo che la disuguaglianza cresca a dismisura.