Sul sistema bancario e finanziario la legislatura si chiude con poche luci e moltissime ombre. Alcune proposte per uscire dalla crisi. (Scopri di più su:
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“Oggi la banca è risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand”. Così si esprimeva all’inizio del 2016 il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi in un’intervista al Sole 24 Ore. A dicembre dello stesso anno sarà proprio il governo a dovere investire in questo bel brand, varando in tutta fretta il cosiddetto “salva-banche” e diventando il principale azionista dell’istituto senese.
20 miliardi di euro messi a disposizione dopo anni passati a ripeterci che l’austerità è l’unica via, che non ci sono i soldi, nemmeno per interventi che sarebbero tanto urgenti quanto necessari. Così come per anni ci hanno ripetuto che non sarebbe stato necessario nessun intervento pubblico per le banche italiane. Poi, a dicembre 2016, nel giro di 24 ore o poco più il governo propone, le due Camere approvano e via. Nel merito, con il salva-banche il Parlamento autorizzava il governo a contrarre maggiore debito, appunto fino a 20 miliardi di euro, per correre al capezzale delle banche. Nuovamente, a dispetto di anni di messaggi continui e quasi ossessivi sul fatto che la riduzione del debito dovesse essere l’unico e solo faro a guidare le politiche economiche italiane, che non fossero possibili altre strade se non tagliare la spesa pubblica, che “è l’Europa che ce lo chiede”, ecco che 20 miliardi di scudo per salvare le banche si trovano in un momento.
Uno scudo pensato anche per il rafforzamento patrimoniale delle banche in crisi, ovvero con intervento diretto del pubblico nelle ricapitalizzazioni. Per l’ennesima volta, tutto quanto ci è stato ripetuto fino alla nausea viene spazzato via. Anni passati a ripeterci che l’unica strada possibile sono le privatizzazioni e che lo Stato deve farsi da parte. Tranne, con il salva-banche, intervenire per socializzare le perdite, dopo che i profitti erano stati privatizzati. Ricordiamo che a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90, l’Italia ha privatizzato il 100% delle banche italiane – una cosa che nemmeno la Thatcher in Gran Bretagna aveva fatto. Quali sono i risultati è oggi sotto gli occhi di tutti, non solo in termini di crisi, ma anche di efficienza, di accesso al credito, di costi dei conti correnti. E non parliamo solo di banche. Le privatizzazioni in Italia si chiamano Telecom, Ilva, Alitalia. Ma il mantra è ancora che privatizzare è giusto, se non è giusto è comunque necessario per ridurre il debito pubblico. Un debito che non è mai sceso malgrado le privatizzazioni, e che si può aumentare di 20 miliardi senza battere ciglio se serve a salvare le banche in precedenza (s)vendute ai privati.
La dichiarazione di Renzi è unicamente una tra le molteplici rilasciate dai principali referenti istituzionali negli ultimi anni. Il ritornello è stato che le banche italiane sono solide, e non hanno bisogno di aiuti dal pubblico. E’ vero che dieci anni fa, allo scoppio della crisi dei mutui subprime, risposero meglio delle omologhe tedesche, francesi o di altri Paesi europei. Se queste ultime furono salvate solo grazie a giganteschi interventi pubblici, le banche italiane, più legate ai finanziamenti all’economia reale e molto meno a operazioni puramente finanziarie, soffrirono relativamente meno.
Paradossalmente, proprio l’essere più legate all’economia reale ha però costituito di recente un elemento di debolezza. Molte banche estere, inondate di liquidità prima con i piani di salvataggio e poi con le politiche monetarie della BCE, sono tornate a realizzare operazioni rischiose e speculative come se nulla fosse successo. Se la finanza è ripartita a pieno ritmo, la crisi si è trasferita al sistema economico. In particolare l’Italia ha vissuto la peggiore recessione dal dopoguerra a oggi. Una crisi industriale, produttiva e occupazionale che ha comportato enormi difficoltà anche per il sistema bancario del nostro Paese.
Inizia allora un estenuante tira e molla con Bruxelles. Da un lato l’Europa fa la voce grossa, e dopo avere permesso per anni ogni forma di salvataggio e intervento pubblico per le banche dei Paesi del centro, adotta un rigore ferreo nel nome delle regole sulla concorrenza e gli aiuti di Stato. Dall’altra il nostro governo che si presenta già in posizione di debolezza per l’eccesso di debito pubblico, e che cerca di “interpretare” le regole per mascherare i piani di aiuto alle proprie banche. Cosi il primo intervento – il fondo Atlante – è ufficialmente privato, anche se è evidente la regia pubblica, rivendicata dallo stesso Renzi in una lettera a Repubblica del dicembre 2017.[1] Analogamente, il governo italiano approva le nuove regole europee di salvataggio (il cosiddetto bail in) ma solo pochi mesi dopo cerca in ogni modo di evitarne l’applicazione, in particolare nel caso Monte Paschi, per non incorrere nell’ira dei piccoli risparmiatori.
Il quadro europeo non può comunque giustificare né nascondere gli enormi problemi del nostro sistema bancario. Primo tra tutti la montagna di sofferenze (non performing loans – NPL), che sono solo in parte legate alla difficile congiuntura economica. In molti, troppi casi si tratta di prestiti concessi dalle banche con estrema leggerezza se non per motivi clientelari, dove essere amici degli amici riveste più importanza dell’analisi economica e di bilancio. Un sistema in cui la politica è stata nel migliore dei casi assente, più spesso connivente.
In molti altri casi era – ed è – la pressione a realizzare budget e risultati di breve termine a condizionare le decisioni in banca. Se lo stipendio e le gratifiche dei top manager sono legati unicamente alla quantità di prestiti erogati, senza obiettivi qualitativi, è più semplice finanziare il palazzinaro di turno per l’ennesimo centro commerciale da decine di milioni di euro che non erogare una moltitudine di prestiti di piccolo importo ad artigiani e imprese produttive del territorio. Non stupisce allora la quantità di sofferenze legate all’edilizia. Ancora, tra i molti altri problemi delle nostre banche, pensiamo al numero spropositato di filiali aperte negli anni passati, come è possibile osservare in molte città. La crisi e la rivoluzione tecnologica, dall’internet banking in poi, hanno reso superflue molte di queste filiali, portando a costi fissi che pesano come macigni sui bilanci di diversi istituti.
Perdite e problemi che troppo spesso sono stati scaricati sulla clientela, alla quale, come mostra purtroppo la cronaca recente, sono stati venduti prodotti finanziari a dir poco rischiosi e inadatti – dalle obbligazioni subordinate ad azioni degli stessi istituti in difficoltà. Nuovamente, un sistema di retribuzioni costruito intorno al massimo profitto nel minore tempo possibile non ha fatto altro che esasperare tali pratiche commerciali, con impatti disastrosi per migliaia di piccoli risparmiatori.
In questo quadro, la responsabilità principale del governo è probabilmente stata proprio quella di ripetere come un mantra che le banche italiane erano solide e non c’erano problemi. Va bene cercare di mantenere la fiducia nel sistema e non scatenare il panico, ma negare l’esistenza di qualsiasi problema fino al momento di ritrovarsi una bomba a orologeria pronta a esplodere non è probabilmente stata la strategia migliore. I problemi non sono stati affrontati in maniera sistemica, ma intervenendo unicamente come se si trattasse ogni volta di un caso isolato, della proverbiale mela marcia. Ancora peggio, interventi di emergenza e urgenza dopo che scoppiavano le crisi manifeste. Su scala europea ci si è presentati a quel punto in posizione di estrema debolezza, mentre in Italia crescevano a dismisura il malcontento e la sfiducia generalizzati nel sistema bancario, proprio quello che si voleva a tutti i costi evitare.
Riguardo il sistema bancario e finanziario, la legislatura si chiude quindi con poche luci e moltissime ombre. L’unica nota positiva è probabilmente l’approvazione – con la manovra del 2016 – del provvedimento che riconosce e definisce la finanza etica e sostenibile. Un nuovo articolo del Testo Unico Bancario (TUB) contiene diversi criteri, dalla trasparenza alle paghe, dalla distribuzione degli utili ai finanziamenti al terzo settore ad altri ancora, che devono rispettare le banche per essere definite operatori di finanza etica e sostenibile.
Se tale provvedimento è un esempio virtuoso da portare adesso su scala europea, si è trattato purtroppo di un caso isolato. Oltre al salvabanche, che interviene a valle della crisi e per tappare una situazione di urgenza e di emergenza, l’azione del governo è stata caratterizzata dalla riforma delle Banche popolari e di quelle di Credito Cooperativo. Riforme che non sembravano certo le priorità né che sembrano avere risolto i problemi delle banche italiane. Riforme che al contrario rischiano seriamente di compromettere l’idea di “biodiversità” bancaria: a fronte di diverse esigenze finanziarie ed economiche per grandi imprese, piccole, artigiani, famiglie, sarebbero necessari diversi tipi e modelli di banca. Il governo italiano sembra invece avere sposato la visione di un sistema “a taglia unica”, tarato sui gruppi internazionali di maggiore dimensione.
Una visione tanto cara alle istituzioni europee che per noi è però nociva, da diversi punti di vista. Negli ultimi anni si è assistito a un diluvio di regole e normative riguardo l’attività di erogazione del credito delle banche, a fronte di poco o nulla riguardo le operazioni più rischiose e speculative. Come conseguenza, le banche sono spinte a spostarsi ancora di più verso operazioni finanziarie e sul sistema bancario ombra, visto che l’attività tradizionale di erogazione del credito viene ingabbiata mentre queste altre no. Non solo viene rilanciato il modello che ci ha trascinato nella crisi, ma per l’Italia, che come detto ha banche relativamente più legate all’economia reale rispetto alle omologhe europee, questa visione e questo sistema di regole e controlli è particolarmente penalizzante.
La responsabilità del governo italiano in questa legislatura è stata per lo meno duplice: da un lato non avere inquadrato le priorità per il nostro Paese, non avere visto arrivare i disastri che hanno colpito le banche italiane, avere minimizzato e negato finché era possibile e anche oltre, ed essere intervenuto in ritardo, a valle, con una misura di emergenza con impatti pesantissimi sui nostri conti pubblici. Dall’altro lato, essersi accodati agli altri Paesi europei, accettando un modello bancario e finanziario sbagliato in assoluto e che ci penalizza in modo particolare.
Avremmo avuto tutto da guadagnare spingendo su una diversa agenda su scala europea. Le principali proposte da portare avanti sono note da tempo. Una seria tassa sulle transazioni finanziarie sarebbe uno strumento formidabile contro la speculazione di breve termine che domina la finanza, e permetterebbe di spostare parte dei capitali finanziari verso l’economia reale. Nello stesso momento, il gettito per i Paesi dell’UE sarebbe di decine di miliardi di euro l’anno, risorse fondamentali da investire nel welfare, la cooperazione o l’ambiente.
Separare le banche commerciali da quelle di investimento significherebbe impedire ai colossi “too big to fail” di ricattare i governi in caso di difficoltà. I risparmi dei clienti vengono al momento impiegati nel casinò finanziario a loro insaputa. Questo significa che i piccoli risparmiatori si assumono i rischi in caso di perdite, ma non partecipano agli eventuali profitti, e in qualche modo viene sussidiata la speculazione.
Analogamente, una forte regolamentazione dei derivati e del sistema bancario ombra permetterebbe di ridurre numero e gravità delle crisi finanziarie, e contemporaneamente sposterebbe risorse dalla finanza speculativa all’economia reale. È incredibile oggi assistere all’eccesso di liquidità sui mercati – molti titoli di Stato italiani hanno rendimenti negativi – mentre dall’altro lato mancano risorse per investimenti di lungo periodo nella ricerca, nella creazione di posti di lavoro, nella riconversione ecologica dell’economia o in altri ambiti socialmente e ambientalmente utili. Se la finanza deve garantire l’allocazione ottimale dei capitali nell’economia, ci troviamo di fronte al più gigantesco e clamoroso fallimento di mercato dell’epoca moderna.
Un fallimento a cui si potrebbe rimediare. Queste e altre proposte mostrano che le principali difficoltà non sono di natura tecnica. Sappiamo cosa andrebbe fatto e come procedere. Il problema principale è nella mancanza di volontà politica. Il paradosso maggiore è infatti che quasi tutte queste proposte erano – almeno nelle dichiarazioni – in cima all’agenda europea degli scorsi anni. Il rapporto commissionato dalla Commissione all’indomani della crisi del 2008 sulle principali riforme da intraprendere (noto come rapporto Liikanen dal nome del Governatore della Banca centrale finlandese che ne ha guidato la redazione) individuava come principale priorità la separazione tra banche commerciali e di investimento. Sempre la Commissione ha pubblicato ormai anni fa una bozza di direttiva per una tassa sulle transazioni finanziarie; la stessa proposta è stata approvata a larga maggioranza da un voto plenario del Parlamento europeo. E l’elenco potrebbe continuare. Tutte priorità che non hanno mai visto la luce, impantanate in discussioni infinite e veti incrociati tra Paesi europei e ancora prima schiacciate dal peso delle lobby del settore.
Ora il rischio è addirittura di un’inversione di rotta: le stesse lobby sono passate al contrattacco, sta di nuovo passando l’idea che solo una finanza libera da regole e controlli può guidare la crescita, malgrado ogni evidenza e malgrado i recenti disastri. In questo quadro è mancata completamente l’Italia. Invece di usare come un ritornello la foglia di fico del “ce lo chiede l’Europa” per giustificare ogni decisione, almeno in ambito finanziario avremmo dovuto chiederlo noi all’Europa. Questo governo e questa legislatura verranno invece mestamente ricordati – per il lavoro in Italia come per quello su scala europea – per la mancanza di coraggio e di visione tanto politica quanto finanziaria ed economica.
Che Fare?
Tra le misure urgenti da adottare nel corso della prossima legislatura, vi è senza dubbio l’introduzione di una “vera” Tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf). Nel 2012, il Governo Monti ha introdotto una misura denominata appunto “tassa sulle transazioni finanziarie”, ma che è in realtà lontanissima dalla proposta avanzata dalle reti europee e oggi in discussione fra 10 Paesi dell’Unione Europea, i quali ne stanno negoziando l’architettura sotto la procedura di cooperazione rafforzata. La versione italiana del 2012 si applica solo ad alcune azioni e derivati sulle azioni e, nel caso azionario, solo ai saldi di fine giornata, non alle singole operazioni. Non si tassano gli strumenti più speculativi e non si disincentiva l’intraday trading azionario, in particolare il regime di negoziazione ad alta frequenza, il più dannoso. La tassa ha generato lo scorso anno 480 milioni.
A giugno 2016 la Commissione Europea ha stimato che la Ttf potrebbe generare nei 10 Stati al centro del negoziato un gettito di circa 86,4 miliardi di euro annui, e in particolare 16,3 miliardi di euro l’anno per l’Italia. È però una stima onnicomprensiva, con oltre 48 miliardi annui attribuibili alla tassazione di strumenti (i long-term debt instruments e i repos e reverse repos) che questi Stati sono orientati a tenere fuori dall’ambito di applicazione dell’imposta europea.
Lo stesso documento della Commissione quantifica peraltro in circa 22,2 miliardi le stime per i 10 Paesi (4,2 miliardi annui per l’Italia) del gettito di una Ttf che rispecchia l’avanzamento dei lavori negoziali e l’architettura dell’imposta che sta emergendo. Si tratta verosimilmente anche del target erariale verso cui si orienteranno gli Stati Membri nella fase conclusiva del negoziato. Consideriamo quindi il gettito che si potrebbe avere con l’introduzione di una “vera” Ttf: sottraendo ai 4,2 miliardi stimati per l’Italia i circa 500 milioni della Ttf nazionale che cesserebbe di essere applicata, si arriva a un extra-gettito di 3,7 miliardi annui.
Note al testo:
[1] “Rivendichiamo l’operazione Atlante che ha impedito tra gli altri la distruzione di un pezzo fondamentale del sistema bancario, segnatamente Unicredit, come sanno tutti gli addetti ai lavori e non solo loro”. Lettera di Matteo Renzi a Repubblica del 21 dicembre 2017.