Il 9 gennaio scorso è caduta la ricorrenza del primo anniversario della scomparsa di Zigmunt Bauman, il sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche, ma operante sin dall’inizio degli anni ’70 nel Regno Unito, paese del quale aveva ottenuto anche la cittadinanza. (Scopri di più su:
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Nato nel 1925, la vita e il pensiero di Bauman sono stati caratterizzati da fasi diverse: dalla militanza comunista, allo studio della sociologia e poi all’insegnamento nell’Università di Varsavia, sino alla fuoriuscita dalla Polonia, vittima di un’ondata di antisemitismo, e all’approdo all’Università di Leeds. Vale la pena di ricordare che già durante la sua permanenza in un paese del “socialismo reale”, in un clima non certo favorevole allo sviluppo di un pensiero non conformista, Bauman aveva prodotto un testo come i “Lineamenti di una sociologia marxista” (del 1964, pubblicato in italiano nel 1971 dagli Editori Riuniti), in cui evidenzia un grado di approfondimento insolito nella letteratura sociologica di quei contesti.
Le opere di gran lunga più importanti di Bauman, tuttavia, sono senza dubbio quelle successive al suo trasferimento nel Regno Unito: esse affrontano una molteplicità di temi, che vanno dalla stratificazione sociale ai movimenti sociali operai, dal socialismo, al nazismo e alla Shoah. Tuttavia, i lavori che hanno determinato il successo di Bauman non solo nell’accademia, ma anche presso un pubblico più vasto, sono soprattutto quelli degli ultimi 20-25 anni, scritti dunque in età già avanzata (dato che la sua morte è avvenuta all’età di 91 anni) e in gran parte dopo il ritiro dall’insegnamento universitario. Non si tratta di un caso unico (si pensi all’analogia con quello di un sociologo italiano di prima grandezza, come Luciano Gallino), ma forse emblematico del fatto che, libero di impegni ordinari, Bauman ha potuto dedicarsi ad un’intensa attività di riflessione e di comunicazione sui temi della società postmoderna e dei rapporti tra processi di globalizzazione ed omologazione, alla scala macro, e i destini dei singoli nella loro condizione sociale e nella vita quotidiana.
La città, un “deserto sovraffollato”
Il concetto di “società liquida”, con cui egli descrive il mondo contemporaneo, è quello che più di ogni altro ha conferito popolarità agli scritti di Bauman, venendo spesso ripreso e ripetuto – anche in ambito mediatico – quasi come uno slogan multiuso. Tuttavia, il sociologo polacco, pur servendosi dell’idea della fluidità in svariati campi, ha espresso un’idea ben precisa del significato di questo processo di liquefazione. Esso è congeniale alla modernità sin dai suoi primi esordi: allora ad essere dissolti sono i legami delle forme comunitarie e tradizionali di solidarietà ed i vincoli feudali. Tuttavia, quel processo aveva, per così dire, fatto piazza pulita di vecchi schemi per consentire l’emergere di nuove strutture solide, tipiche del mondo moderno. Oggi, però, un nuovo e più radicale fenomeno di liquefazione è in atto e non mira affatto a lasciare spazio ad ulteriori solidità; esso infatti scioglie in modo apparentemente definitivo ogni vincolo tra le scelte degli individui e progetti o azioni collettive. Di qui si genera la fondamentale solitudine dell’uomo postmoderno, che diventa titolare di una libertà d’agire e di sperimentare, cui però fa da contraltare la necessità di affrontare in modo del tutto individuale le conseguenze dell’azione.
Uno dei luoghi in cui, paradossalmente, tale solitudine si evidenzia è la città contemporanea. In un testo curato in italiano da Carmen Leccardi con il titolo evocativo “Individualmente insieme” (Diabasis, 2008), Bauman pubblica un saggio dedicato proprio alla città e la definisce un “deserto sovraffollato”. In essa, infatti, tendono a convivere, in spazi densi ma reciprocamente separati, un’élite sempre più globalizzata e disinteressata alle vicende cittadine ed una popolazione effettivamente ‘locale’ che dipende dagli spazi urbani e da quanto vi trova, non avendo altre possibilità. Inoltre, la città oggi appare sovrastata da sentimenti di paura che portano alla costruzione di recinti e barriere e che tendono a rivolgersi in primo luogo contro ciò che appare ignoto e portatore d’ansia. In ciò, lo straniero è la figura che prima di ogni altra appare adatta a fornire una incarnazione concreta di queste paure: “Come se gli stranieri fossero stati inventati proprio per questo: servire, collettivamente, da scarico di tutte le paure e di tutte le passioni che derivano dall’incertezza, dall’insicurezza e dal senso di vulnerabilità dell’era liquido-moderna” (p. 97).
Il ruolo centrale degli spazi pubblici urbani
Il tono pessimista dell’analisi, tuttavia, si riscatta nella parte conclusiva del saggio: Bauman, infatti, afferma che, nonostante la presenza di questo disinteresse delle élite per il locale, nessun attore, per quanto cosmopolita e virtualmente interconnesso col mondo, può fare a meno dei luoghi della propria città: “E’ attorno ai luoghi che l’esperienza umana tende a formarsi e articolarsi, è qui che viene condotto il tentativo di gestire le dimensioni condivise della vita, è qui che i significati dell’esistenza sono delineati, assorbiti e negoziati” (p. 108). La città, dunque, è sempre un luogo di tensioni e contrapposizioni tra poteri globali e una popolazione in cerca di identità e percorsi di senso locali; ma questo conflitto conosce anche dei tentativi di compromesso, o quanto meno dei momenti di tregua. Per questo la città continua ad apparire – come è stata spesso definita, a partire dalla sociologia americana degli anni ’20 – un laboratorio dove si sperimentano forme di convivenza e dove si cerca di vivere anche “con” lo straniero, piuttosto che essere ossessionati dall’idea di trovarsi soli e circondati da stranieri.
Il tema della città è ripreso anche in uno dei testi più noti di Bauman “Modernità liquida” (la cui edizione originale è uscita presso Polity Press nel 2000), che dedica una delle sue sezioni al tema dello spazio e del tempo. Qui egli sottolinea il ruolo centrale degli spazi pubblici urbani, evidenziando come una loro caratteristica essenziale dovrebbe essere quella della “civiltà”. Come già Sennett aveva spiegato, un luogo pubblico “civile” è tale se permette alle persone di presentarsi quasi indossando una maschera (d’altra parte, il termine “persona” ha origine proprio nel teatro romano e si riferisce alla maschera); essa consente di relazionarsi con gli altri senza essere costretto a mostrare tutto di se stessi e proprio per questo favorisce le relazioni con il diverso, con l’estraneo. Sono, queste, analisi che ricordano quelle – vecchie di oltre un secolo – di Simmel sul comportamento blasé, affettato, dell’abitante della città, ma che qui vengono introdotte per mostrare come la città contemporanea sia piena di luoghi che negano questo carattere “civile” o perché sono spazi repulsivi, che escludono per principio tutti coloro che sono estranei, o perché metabolizzano l’estraneità trasformandola in omologata similarità. Esempi del primo tipo sono le cittadelle direzionali e finanziarie, come La Défense a Parigi; esempi del secondo sono i centri commerciali, con le loro ripetizioni di spazi formatizzati e privi di identità. In entrambi i casi, si tratta di spazi pubblici, o aperti al pubblico, ma non davvero “civili”.
Verso una città bene comune
La civiltà, tuttavia, non è facile da praticare; essa richiede l’apprendimento di una modalità rispettosa di interagire con gli altri, che richiede una specifica competenza. E’ però un dovere della città quello di rendere possibile l’acquisizione di queste competenze, offrendo luoghi urbani che, a loro volta, siano civili. Il setting urbano deve favorire questo compito, che non è strettamente privato, perché si radica prima di tutto nelle forme condivise della città. Di qui, l’idea che la città ha, per così dire, il dovere di presentarsi agli occhi dei suoi abitanti come un bene comune, non riducibile ad una somma di finalità private. Essa, infatti, fornisce a tutti un compito da condividere, che non è il puro aggregato di interessi individuali.
Il bene comune, peraltro, non è quello di una “comunità”, un concetto che qui Bauman collega non tanto ad una collettività localizzata sul territorio, ma piuttosto ad un aggregato sociale che nasce dal desiderio di separazione e di chiusura in se stessi di alcuni gruppi. Per dirlo in altri termini, il bene comune non è un privato di gruppo, o di club, che possa essere condiviso solo da chi ne fa parte. Esso è effettivamente di tutti (senza limitazioni di sorta) e non è appropriabile da nessuno in particolare. Ma il compito di valorizzarlo non è agevole in una società in perenne cambiamento, dove l’individualismo è una condizione di vita strutturale e l’incertezza domina, favorendo varie forme di chiusura difensiva. La lezione che pare potersi ricavare da queste riflessioni è che il lavoro sui beni comuni è una responsabilità forte, ma è anche una via necessaria per ritrovare luoghi civili, da vivere civilmente.
- *Alfredo Mela è Professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio al Politecnico di Torino. Fa parte del comitato di direzione della rivista «Sociologia urbana e rurale» e della direzione scientifica della rivista online «Psicologia dell’emergenza e dell’assistenza umanitaria». Tra i suoi interessi di ricerca rientrano la partecipazione dei cittadini nella pianificazione territoriale, la dimensione sociale della sostenibilità urbana, i grandi eventi e le loro ricadute territoriali, lo spazio pubblico urbano.