Dimenticate la disruption e l’idea che l’innovazione debba muoversi veloce e distruggere tutto: nell’anno che verrà l’obiettivo numero uno è provare a capire cosa sta succedendo e come sfruttarlo al meglio. (Scopri di più su:
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Era il 1990 quando Clayton Christensen, professore ad Harvard, definì il concetto di disruptive innovation, crasi shumpeteriana dei processi di simultanea distruzione di vecchi paradigmi e creazione di nuovi, attraverso la tecnologia. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti, disruption è diventata la buzzword della Silicon Valley e, per analogia, in tutti i luoghi di lavoro: la capacità di “muoversi veloce e rompere tutto”, per usare l’aforisma preferito del disruptor per antonomasia, il fondatore e ceo di Facebook Mark Zuckerberg, era diventata la caratteristica che ogni innovatore - affamato e folle - sembrava dover possedere.
I tempi sono cambiati, però. Come racconta un articolo del Guardian, proprio dalla Silicon Valley sta partendo un contropensiero contro la disruption: “Descrive un tipo di imprenditore seriale che salta da una startup all’altra senza occuparsi del futuro, e senza alcun riguardo per ciò che lascia per strada”, racconta Leight Alexander nel suo op-ed. E in fondo, forse, è un segno dei tempi che cambiano. In cui i robot davvero stanno arrivando nelle nostre fabbriche, nelle nostre case e nei nostri uffici. Dove davvero le criptovalute stanno smettendo di essere un giochino per nerd (nemmeno troppo) cresciuti. Dove davvero la mole di dati che ogni tech company raccoglie su di noi ha raggiunto una mole inimmaginabile. Dove davvero abbiamo delegato buona parte dei nostri processi, a partire dall’abitare e dal muoversi, a macchine che si parlano tra loro. E dove davvero le persone hanno cominciato a rendersene conto, smettendo i panni dei consumatori e dei cittadini felici e cominciando a mettere in discussione il valore sociale di tutta questa innovazione.
Se questo è lo scenario per il 2018, forse le parole da mettere in fila per capire cosa vorrà dire vivere e lavorare nel futuro sono altre. Meno affascinanti, forse. Sicuramente più utili.
"La prima parola non può che essere formazione. Un po’ perché il mondo non è solamente cambiato tantissimo, in questi anni, ma soprattutto perché la tecnologia ha impresso il cambiamento un ritmo impressionante".
Formazione. La prima parola non può che essere formazione. Un po’ perché il mondo non è solamente cambiato tantissimo, in questi anni, ma soprattutto perché la tecnologia ha impresso al cambiamento un ritmo impressionante. Ormai è pensiero comune che la scuola sia per tutta la vita, che sia necessario predisporsi a imparare costantemente cose nuove. Nel 2017 l’enfasi ha riguardato l’industria, prevalentemente quella manifatturiera, con la domanda formativa legata a Industria 4.0 che ha generato academy aziendali, una rinnovata attenzione per gli istituti tecnici e per il coding e la robotica, sin dalle elementare. Tutto giusto, ma è come guardate il futuro dallo spioncino della porta d’ingresso. Perché ogni professionista - dall’avvocato al medico, dal giornalista allo stesso insegnante - sarà obbligato a imparare cose nuove, a cambiare radicalmente la propria stessa idea di lavoro. La formazione per sempre - o life long learning, per i puristi - è una rivoluzione che cambierà radicalmente le nostre vite. Anche - anzi, soprattutto - se decideremo di farne a meno.
Sicurezza. Cyberattack è una parola che eravamo abituati a leggere nei romanzi di fantascienza. Ora gli esperti della sicurezza americana sono convinti, scrive Bloomberg, che ci siano rischi concreti che degli hacker possano addirittura entrare nelle centrali e elettriche e nucleari americane e “spegnere l’America” chissà per quanto. Se non avete idea di cosa significhi, provate a pensare anche solo a quanto possa costare l’hackeraggio di un data center di Google o di Facebook. E pensate pure a questo: che se un hacker è in grado di spegnere l’America, può pure penetrare ovunque nella vita delle persone e delle aziende. Previsione molto facile: il 2018 sarà un anno di investimenti in sicurezza informatica. E se avete voglia di reinventarvi e imparare cose nuove, questa può essere quella giusta.
Analisi. Ok, abbiamo raccolto un mare di big data da poter prevedere qualunque cosa su qualunque persona. Il tema è un altro, semmai: sappiamo interpretarli? L’Harvard Business Review diceva cinque anni fa che il Data Scientist sarebbe stato il lavoro più sexy del 21esimo secolo e forse non avevano tutti i torti. Soprattutto oggi, in cui ogni cosa è interconnessa, i big data rischiano di diventare il rumore bianco della nostra epoca, una massa indistinta che va oltre la nostra capacità di analisi. Ecco perché è importante investire sulla professione del data scientist.
Contaminazione. Antropologi e sociologi per studiare le interazioni tra uomo e macchine nella vita di ogni giorno, psicologi per capire come possa reagire un anziano a una badante in plastica e silicio, filosofi per capire come reagiranno le automobili che si guidano da sole di fronte a dilemmi morali - ammazzare un cane, o schivarlo col rischio di ammazzare il conducente? Facciamo una scommessa: le lauree Stem del 2018 saranno i saperi umanistici e sociali, i prossimi ITS saranno i licei classici. E la contaminazione tra i saperi scientifici e quelli umanistici saranno la chiave per interpretare la relazione tra umano e non umano.
Adattamento. Prendiamo in prestito la storia di Barbara Mazzolai, biologa e ricercatrice all’Istituto Italiano di Tecnologia: «Il robot che misura la qualità del suolo deve infilarsi in ambienti ristretti, deve muoversi e adattarsi in situazioni impreviste - spiega -. E le piante sono il paradigma di tutto questo: la pianta è l’unico essere vivente che associa il movimento alla crescita». Adattarsi in situazioni impreviste, infilarsi in ambienti ristretti, crescere muovendosi: sembra il paradigma di un lavoratore, oggi. Chi l’avrebbe detto che l’augurio per il 2018 - e pure per gli anni a venire, a ben vedere - sarebbe stato quello di essere come le piante?