Occorre riprendere il controllo democratico sulla tecnica oltre che sul capitalismo, imponendo a tecnica e capitalismo, ormai una cosa sola, di tornare ad essere mezzi e non fini. (Scopri di più su:
Sbilanciamoci.info)
Cui prodest, cioè a chi giova – la gig economy? Certamente – e soprattutto – al capitalismo. Al suo incessante divenire, alla sua strutturale e schumpeteriana distruzione (molta) creatrice (poca), alla sua oggi apparentemente incontenibile disruption – che è quel processo che accade «quando una tecnologia di rottura si impone sul mercato sconvolgendolo totalmente, causando un cortocircuito delle regole esistenti, anzi ristrutturando brutalmente alcune modalità di azione o alcune tipologie di relazione sociale»[1].
La domanda deriva da un passo della Medea di Seneca che nel dettaglio recita: cui prodest scelus, is fecit – ovvero «il delitto l’ha commesso colui al quale esso giova». Il delitto – in questo caso commesso sul corpo sociale e individuale, oltre che sul diritto (posto che sharing e gig economy hanno la vocazione ad aggirare le norme esistenti, chiamando però tutto questo libera concorrenza[2]) – l’ha commesso il capitalismo, perché ciò era necessario e funzionale al suo funzionamento e accrescimento, producendo uomini ancor più funzionali a tale funzionamento 2.0, ovvero alla flessibilizzazione dell’apparato produttivo e, con questo, dell’intera società. Gig economy, voucher, alternanza scuola-lavoro e poi ancora sharing economy, uberizzazione del lavoro, lavoro on demand, Fabbrica 4.0, algoritmi e machine learning (nomi diversi per un processo unico) – sono il trionfo dell’uomo flessibile, dell’homo oeconomicus neoliberale, nel declino dell’homo civilis. Perché certo, la gig economy nasce ed esplode con la crisi del 2008 e con l’impoverimento di massa che ha creato unitamente alle politiche di austerità dei governi occidentali, portando molte persone a cercare opportunità occupazionali, anche se saltuarie, offerte da siti, app e piattaforme web. Ma in realtà si inserisce appunto perfettamente in quel processo di flessibilizzazione, precarizzazione, individualizzazione del lavoro iniziato con la vera crisi, quella degli anni Settanta del ‘900 e che ha prodotto una profonda trasformazione del sistema capitalistico.
La gig economy, dunque – l’economia dei lavoretti, dei riders in bicicletta, del cottimo, dello sfruttamento chiamato servizio personalizzato al cliente, delle retoriche del lavori quando vuoi e quanto vuoi – è infatti l’ultimo o il penultimo elemento creato e poi imposto/istituzionalizzato dal tecno-capitalismo e dal neoliberalismo nella loro azione di de-strutturazione della società e dell’individuo e di distruzione di quel welfare che era stato costituzionalizzato nel secondo ‘900, per produrre una società di mercato e al contempo un uomo nuovo che fosse (s)oggetto competitivo al massimo della sua prestazionalità[3], nonché merce tra le merci del sistema. Possibilmente low cost.
Un tecno-capitalismo prodotto dalla perfetta integrazione funzionale tra tecnica e capitalismo neoliberale[4] sfruttando per sé e per il proprio ulteriore potenziamento – permettendogli di uscire più potente di prima da quella crisi degli anni Settanta – anche le tesi libertarie del sessantotto[5], trasformando in mercato/profitto per sé la voglia di autenticità e di creatività che saliva dai giovani, la critica artistica al sistema e l’anarco-capitalismo statunitense, nonché l’illusione di poter creare poi, con le nuove tecnologie, il mitico general intellect marxiano. Ottenendo il massimo di auto-assoggettamento/auto-integrazione di ciascuno nel mercato e nella rete/apparato tecnico, offrendo l’illusione della massima libertà individuale per ciascuno.
In realtà si sono innescate non liberazione, creatività e autonomia, bensì: 1) una quota di lavoro sempre più flessibile, precario e low cost; 2) una vita messa al lavoro in servizio permanente effettivo; 3) una mobilitazione totale del sistema e di ciascuno auto-sfruttato nel sistema, confondendo lavoro, consumo, socialità e divertimento/smart; 4) il passaggio dal fordismo concentrato delle grandi fabbriche al fordismo esternalizzato/individualizzato permesso oggi dalla rete come mezzo di connessione[6]; 5) l’utilizzazione della rete come catena di montaggio di un lavoro non certo artigiano/creativo, come prometteva di essere; 6) la trasformazione, quindi, della stessa rete in una Grande Fabbrica dove tutti sono comunque al lavoro in senso capitalistico (quando lavorano, consumano, condividono, socializzano lasciando dati, si divertono); 7) una mercificazione del lavoro (giocando al ribasso del suo valore), dell’individuo e della sua vita; 8) la de-strutturazione del sindacato e – vecchio sogno del capitalismo, da Ford a Taylor a Toyota – la cancellazione o quasi del conflitto; 9) la sovra-ordinazione (questo voleva l’ordoliberalismo) dell’ordine del mercato su ogni altro ordine/istituzione/valore; 10) la de-sovranizzazione del demos[7] e il trionfo di autocrazie e di populismi comunque tecno-capitalisti.
La gig economy è dunque parte funzionale di questo processo finalizzato da oltre trent’anni a produrre, pianificandola, una nuova organizzazione della vita attraverso una nuova ma classica socializzazione di ruolo/funzione secondo appunto il modello: imprenditori di sé stessi. Sciogliendo i legami sociali e di classe, isolando ciascuno dagli altri e allo stesso tempo connettendolo/integrandolo disciplinarmente e biopoliticamente nella struttura organizzativa e di senso del tecno-capitalismo.
Una gig economy che qualcuno cerca di distinguere dalla sharing economy, come se tra un rider di Foodora e un autista di Uber o il condividere alcuni servizi monetizzandone il valore d’uso (e quindi restando nella logica capitalistica del valore di scambio), vi fossero differenze sostanziali.
Qualcosa che sembra nuovo e che tuttavia era scritto nelle sue premesse: perché già Henry Ford, cento anni fa, aveva compreso come la flessibilità e l’esternalizzazione e il decentramento produttivo fossero fattori imprescindibili di ogni produzione industriale (importante era avere un buon sistema di comunicazione/connessione), insieme alla capacità di produrre un’omogeneità di valori – un olismo che mascherasse la gerarchia e la disciplina – tra impresa e lavoratori (e aveva appunto creato la Sezione sociologica per modellizzare la sua forza lavoro); perché anche Taylor, padre dell’organizzazione scientifica del lavoro, aveva capito che per attivare/mobilitare e aumentare la produttività dei lavoratori occorreva stimolare in loro da un lato l’autostima, rendendoli magari felici di essere sempre più sfruttati (oggi si inventano i manager della felicità, con il medesimo obiettivo) e dall’altro favorire la creazione di squadre/team di lavoro (oggi, allo scopo, si usano anche i social network); perché il sistema del just in time si è infine evoluto (o involuto) nel just in time delle risorse umane e poi anche della vita delle persone, nella flessibilizzazione dell’occupazione e della prestazione[8], nella precarizzazione fatta sistema e oggi nel lavoro on demand.
Ed è appunto il trionfo del capitalismo delle piattaforme[9]. Dove la rete è divenuta la Grande Fabbrica e la piattaforma è il mezzo di connessione di un lavoro vieppiù parcellizzato/individualizzato/precarizzato e soprattutto impoverito di contenuti; ma soprattutto, la piattaforma è il nuovo mezzo di produzione che, vestendosi/mascherandosi di condivisione libera e orizzontale e di auto-imprenditorialità nasconde non solo la reale e ulteriore verticalizzazione e individualizzazione (e sfruttamento) del rapporto di ciascuno con la piattaforma/algoritmo da cui dipende, ma replica in altro modo la vecchia alienazione marxiana, la piattaforma non essendo proprietà di chi la usa (ma di un capitalista o di molti capitalisti), la piattaforma traendo profitto per sé dal lavoro di dipendenti che non vuole considerare dipendenti ma appunto imprenditori di se stessi, a questi ultimi restando solo l’illusione di avere la propria auto e il proprio smartphone o la propria bicicletta/scooter. Ma così trasformando la vecchia fabbrica-fordista/mezzo di produzione in una piattaforma-fordista/mezzo di produzione.
Dove cambia il supporto tecnologico – così come Amazon è solo l’attualizzazione tecnologica del vecchio Postal Market e delle vecchie vendite per corrispondenza – ciò che non cambia è la sostanza, il modo di essere/organizzare, la norma normante e normalizzante del tecno-capitalismo. Che dalla prima rivoluzione industriale alla quarta odierna si basa su quello che abbiamo ridefinito come doppio movimento: prima individualizzare, suddividere il lavoro (e la vita), per poi totalizzare e integrare le parti suddivise (vita compresa) in qualcosa che sia maggiore della semplice somma delle parti[10]. Ieri, con la catena di montaggio e l’organizzazione scientifica del lavoro, poi con il toyotismo e la lean production, oggi con le piattaforme e gli algoritmi. Producendo un lavoro che cessa (che per il tecno-capitalismo: deve cessare) di essere un diritto (limiterebbe l’innovazione), per tornare ad essere nella piena disponibilità del capitalista/capitalismo/piattaforma.
Certo, vi sono lodevoli eccezioni[11]. E molti tribunali (in Gran Bretagna, in Spagna, qualcosa anche in Italia), finalmente cercano di portare ordine e chiarezza – e giustizia, prima che diritto – là dove lo stato latita o si nasconde rincorrendo la Silicon Valley e le sue retoriche.
Nessuno rimpiange il vecchio fordismo, ma non dovremmo provare nessun entusiasmo per quello nuovo o “2.0”. Certo, poche settimane fa – sembrerebbe (ma non è) un passo avanti – è nata la startup londinese Zego che propone polizze fatte su misura per la gig economy, ma sono anch’esse on demand, si stipulano cioè a tempo e si attivano solo quando serve e la spesa è ovviamente (sempre nella logica della esternalizzazione e della individualizzazione anche del rischio) a carico di autisti e fattorini di Foodora, Deliveroo e Uber. Mentre Deliveroo – che in Belgio ha cancellato l’accordo (unico al mondo) stipulato tempo fa con la cooperativa SMart per garantire un minimo di diritti ai lavoratori della gig economy – ha dichiarato di «volere offrire sicurezza e tutele ai propri partner», ma chiede di porre fine «alla necessità di scegliere tra flessibilità e sicurezza come avviene nel diritto del lavoro».
Che fare?
Proviamo a elencare alcuni (s)punti di riflessione, ponendo tuttavia una premessa.
Perché per prima cosa occorrerebbe un profondo ripensamento del rapporto di uomini e società con la tecnica come apparato e come singole tecnologie, uscendo dalla gabbia intellettuale fatta di tecno-entusiasmo a prescindere che porta a considerare la tecnologia e la tecnica come dei semplici mezzi o dei bellissimi giocattoli. Ormai dovrebbe essere invece evidente che la tecnica è il fine di sé stessa; che le forme e le norme tecniche di funzionamento dell’apparato tecnico e della sua organizzazione del lavoro/consumo/vita (il doppio movimento, la razionalità calcolante, l’accrescimento incessante) sono diventate forme sociali[12] e culturali (antropologiche) e ormai viviamo, comunichiamo, amiamo, socializziamo (cioè funzioniamo) esclusivamente (o quasi) in base a norme e a forme tecniche e capitalistiche. Siamo sempre più dipendenti dalla tecnica (è nella natura degli uomini), ma alla tecnica sempre più (è il mutamento antropologico di questi ultimi decenni) deleghiamo ogni decisione, oggi agli algoritmi che imparano da soli (machine learning), auto-escludendoci dalla democrazia e facendoci non più soggetti che decidono ma oggetti di scelte tecniche eteronome.
Se questo è vero – ed è sempre più vero e sempre più velocemente – occorre riprendere il controllo democratico sulla tecnica oltre che sul capitalismo, imponendo a tecnica e capitalismo, ormai una cosa sola, di tornare ad essere mezzi e non fini. In caso contrario, il tecno-capitalismo procederà nella logica dei sistemi autopoietici, quei sistemi in cui il soggetto che ordina è oggetto dell’ordine da esso stesso creato, il sistema auto-riproducendosi cioè in automatico e in senso auto-referenziale. Perché è inutile pensare di contrastare o regolamentare (a valle) la gig economy come tutto il capitalismo delle piattaforme e il neoliberalismo se prima non si agisce (a monte) controllando e governando quella tecnica che ha nella sua logica/essenza di funzionamento appunto lo scomporre sempre più, parcellizzare sempre più, razionalizzare sempre più le proprie forme e norme di funzionamento imponendole alla società, accrescendosi sempre più come sistema capace di integrare/connettere tutto e ciascuno dentro di sé.
E dunque:
- Ritorniamo a William Beveridge: liberale inglese che nel 1942 redasse il famoso Piano che porta il suo nome per il riordino e l’ampliamento del welfare. Diceva Beveridge: lo stato deve perseguire sempre la piena occupazione; nei rapporti di lavoro deve sempre tutelare la parte debole del contratto e, se necessario può/deve nazionalizzare industrie o settori produttivi;
- L’economista John M. Keynes: secondo il quale lo stato deve fare ciò che l’economia privata non sa fare, aprendoci così spazi infiniti di intervento pubblico, di regolazione pubblica dei mercati, di politiche economiche, sociali, ambientali;
- La nostra Costituzione, che i Trattati europei non hanno cancellato, che era prescrittiva allora e che è prescrittiva dopo il 4 dicembre 2016. Di cui richiamiamo – perché sia una sorta di bussola per il pensare e poi per l’agire, l’articolo 41, che (pre)scrive come l’iniziativa economica privata sia sì libera ma che non possa svolgersi in contrario con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, la legge determinando i programmi e i controlli perché l’economia, privata e pubblica, sia indirizzata e coordinata a fini sociali. Dal che discende, come logica conseguenza, che la gig economy-sharing economy-uberizzazione–lavoro on demand e il JobsAct – non producendo utilità sociale, ma il suo contrario – sono politicamente (e in diritto) incostituzionali perché socialmente disruptivi. E quindi – come nota a piè di pagina al terzo punto – dovrebbe essere lo stato – la democrazia – a imporre alle piattaforme capitalistiche di considerare quei lavoratori come propri dipendenti anche e soprattutto de iure, obbligandole a farsi carico esse stesse delle tutele necessarie. Di più: dovrebbe considerare illegali tutte le forme di lavoro on demand, unico modo (Beveridge, ancora) per tutelare, come sempre deve essere, la parte debole del rapporto di lavoro.
Certo, dire questo è facile; ma non è antimoderno; o non è un voler fermare l’innovazione – come sicuramente faranno gli integralisti e i cortigiani del sistema tecno-capitalista. Significa, al contrario, essere modernissimi e voler tornare, come uomini e come società, a fare la storia.