Anche in Italia siamo di fronte a una disuguaglianza che sembra espressione di un sistema fortemente oligarchico, che si alimenta del perverso funzionamento di istituzioni che sempre meno appaiono idonee a svolgere il ruolo di garanti dell’efficienza e dell’equità. (Scopri di più su: Sbilanciamoci.info)
Se classificassimo i politici in base all’attenzione che prestano alla disuguaglianza probabilmente troveremmo che la gran parte di essi rientra in due categorie. Nella prima c’è chi ne parla – anche molto – mostrando di considerarla un male da combattere, ma poi non si presenta sul campo di battaglia; nella seconda ci sono invece, coloro che quasi non ne parlano, ma combattono, e anche molto, per aggravarle.

Tra questi ultimi rientrano certamente i politici americani che sotto la guida di Trump hanno approvato misure che, riprendendo quanto scrive P. Alston in un recente e – per più di un verso – drammatico rapporto per conto delle Nazioni Uniti sugli USA, segnano un “radicale cambiamento di direzione nelle politiche relative alla disuguaglianza e alla povertà estrema”.

Tra i primi, invece, ci sono molti politici europei e italiani che frequentemente rilasciano dichiarazioni preoccupate per le disuguaglianze. Una delle ultime è di Gentiloni che a Reggio Emilia ha detto: “Dobbiamo usare questa congiuntura favorevole per sviluppare il lavoro, favorire l’innovazione e combattere le disuguaglianze sociali”. A dichiarazioni di questo tenore non segue quasi mai un’indicazione precisa su come disinnescare o frenare i motori della disuguaglianza, che è cosa diversa dall’adottare – o, peggio ancora, promettere -interventi poco coordinati che al più possono marginalmente alleviare il disagio di alcuni soltanto tra coloro che stanno peggio. Misure di questo tipo tendono ad avere effetti deboli sulla povertà; d’altro canto, alleviare la povertà non è la stessa cosa che combattere e, soprattutto, prevenire la disuguaglianza economica.

Per comprendere le ragioni di un simile stato di cose – ma non soltanto per questo – è bene avere chiaro quali siano i motori della disuguaglianza e quanto radicali – almeno per gli standard odierni – sarebbero le misure da adottare per frenarne la perversa forza propulsiva. Dunque, anche a questo scopo, richiamerò brevemente alcune caratteristiche essenziali della disuguaglianza economica di questi anni ricordando che essa può costituire un problema non soltanto per la sua ampiezza, più o meno correttamente misurata, ma anche per le sue specifiche caratteristiche che possono mutare – e di fatto sono abbastanza mutate – nel corso del tempo.

Quando si parla di disuguaglianza nei redditi normalmente si fa riferimento ai redditi disponibili, cioè quelli che sono percepiti nei diversi mercati dai membri del nucleo familiare accresciuti per i trasferimenti provenienti dallo Stato e ridotti per il pagamento delle imposte dirette.

Rispetto a trent’anni fa questa disuguaglianza è cresciuta all’interno di quasi tutti i paesi avanzati. In Italia, misurata con l’indice di Gini, è passata dal 28% circa della metà degli anni ’80 al 32,5% circa degli anni più recenti (dati OCSE). Da qualche tempo essa è sostanzialmente costante, anche se con tendenza a un lieve peggioramento negli anni della crisi. Ma il livello è tra i più alti nell’ambito dei paesi avanzati.

Occorre, però, cautela nell’interpretare questi dati, soprattutto quelli riguardanti gli anni più recenti. Infatti, essi non tengono conto della possibilità di accesso ai servizi del welfare e quando questa trova maggiori ostacoli, come è accaduto di recente, il benessere dei meno abbienti peggiora con aggravamento delle effettive disuguaglianze. Inoltre, quei dati potrebbero registrare molto imperfettamente fenomeni in atto che sono rilevanti per la disuguaglianza: mi riferisco a quanto accade nelle code estreme della distribuzione (i molto poveri e i molto ricchi) che sono sotto-rappresentate nelle indagini campionarie da cui quei dati provengono.

I redditi disponibili sono rilevanti perché da essi dipende più direttamente il benessere degli individui. Tuttavia, per comprendere le forze sottostanti la disuguaglianza è utile guardare ai soli redditi di mercato.

I dati mostrano praticamente per tutti i paesi un ben più serio peggioramento rispetto alla metà degli ‘anni ’80. In Italia tale peggioramento è particolarmente accentuato: siamo passati dal 38% circa a più del 50%, un valore superiore a quello degli Stati Uniti. Inoltre, diversamente dal caso dei redditi disponibili, questa disuguaglianza risulta in crescita anche negli anni più recenti, in particolare durante la crisi.

L’azione redistributiva dello Stato ha, dunque, impedito alla disuguaglianza nei redditi di mercato di ripercuotersi integralmente sui redditi disponibili. Benché nel complesso meno redistributivo di quello di altri paesi, il nostro welfare sembra aver accresciuto la capacità di contrastare le disuguaglianze. Si deve, però, tenere presente, da un lato, che una buona parte di questo risultato dipende dal ruolo delle pensioni che rientrano nei redditi disponibili ma non in quelli di mercato e, dall’altro, che non viene considerato, anche per le difficoltà di stima, l’impatto redistributivo dei servizi gratuiti del welfare.

Va anche considerato che è notevolmente cresciuta la quota di reddito di mercato appropriata dai segmenti più ricchi della popolazione e in particolare dal top 1%: tra la metà degli anni ’80 e il 2009 tale quota è passata dal 6,5% circa a oltre il 9%, con un incremento percentualmente rilevante anche se nettamente meno marcato di quello di altri paesi, a iniziare dagli Stati Uniti. Anche questo è un aspetto rilevante della disuguaglianza contemporanea.

Dunque, per individuare i principali motori della disuguaglianza occorre rivolgere lo sguardo ai mercati e al loro funzionamento che – è bene sottolinearlo – è largamente determinato da scelte politiche e non imposto da ineluttabili forze esterne quali sono considerati il progresso tecnologico e la globalizzazione.

La crescente disuguaglianza di mercato può essere ricondotta a due fenomeni: la maggiore disuguaglianza nella principale componente del reddito familiare, cioè il reddito da lavoro; la maggiore importanza di una componente di reddito distribuita in modo molto disuguale, cioè il reddito da capitale.

La disuguaglianza nei redditi da lavoro dipendente nel settore privato è passata, in termine di indice di Gini, dal 32% circa del 1990 al 38% di oggi. Queste tendenze coesistono con fenomeni storicamente inediti: lavoratori che non superano la soglia della povertà e lavoratori che percepiscono redditi stratosferici.

La quota di working poor tra i lavoratori dipendenti del settore privato in Italia è approssimativamente del 25%. E l’importanza dei lavoratori super-ricchi è confermata dalla crescente presenza dei redditi da lavoro tra quelli percepiti dall’1% più ricco. Ciò è anche dovuto al fatto che alcuni di questi super ricchi – i manager – vengono pagati con stock option che determinano compensi collegati all’andamento della borsa. In ogni caso, le stock option sono la remunerazione del lavoro prestato e non del capitale apportato alla società. Peraltro, manager super pagati finiranno per accumulare ricchezza e quindi per percepire anche elevati redditi da capitale.

La crescente importanza dei redditi da capitale è documentata dalla mutata composizione dei redditi familiari medi. Tra la prima metà degli anni ’90 e oggi (periodo durante il quale il reddito medio è leggermente diminuito da 30.000 a circa 28.500 euro annui) il reddito da lavoro dipendente è sceso approssimativamente dal 50 al 40% del reddito familiare e quello da lavoro autonomo dal 16 al 12%, mentre il reddito da capitale è aumentato dal 15 al 21 % e quello da pensioni e altri trasferimenti dal 20 al 28%. Quindi è evidente, con riferimento ai soli redditi di mercato, il maggior peso dei redditi da capitale.

Quest’ultimo è dovuto essenzialmente a due fattori: la quota maggiore di reddito nazionale appropriata dal capitale nella distribuzione funzionale del reddito; l’elevato rendimento del capitale (e della ricchezza) per buona parte del periodo considerato.

La maggiore incidenza dei redditi da capitale si traduce in maggiore disuguaglianza complessiva perché quei redditi si distribuiscono in modo molto diseguale e ciò avviene per due ragioni: perché il capitale e la ricchezza da cui scaturiscono sono molto concentrati, perché il tasso di rendimento tende a crescere con la ricchezza posseduta. Esaminiamo brevemente alcuni dati.

La ricchezza netta pro capite che era di 110.000 euro nel 1995 è salita a circa 165.000 euro nel 2007 per poi scendere, per effetto della crisi, a 145.000 euro nel 2013. Negli ultimi 30 anni la quota di ricchezza complessiva appropriata dall’1% più ricco è cresciuta di oltre 3 punti percentuali ed oggi è pari a circa ¼ della ricchezza complessiva. L’indice di Gini è ben più elevato di quello relativo ai redditi disponibili e si aggira sul 55%. Si tratta, tuttavia, di un valore relativamente basso nei confronti internazionali e la causa principale è la diffusa proprietà della casa, a sua volta dovuta in buona misura alle politiche abitative adottate.

Infatti gli immobili e le case rappresentano, in modo stabile da tempo, circa il 50% della ricchezza complessiva. Seguono, per importanza: i conti di risparmio e deposito (circa il 20% e in tendenziale calo); le azioni e i fondi di investimento (circa il 10%, e in calo); le attività delle imprese (circa il 9%, e in calo) i fondi pensione e le assicurazioni sulla vita (circa il 7% e in tendenziale crescita).

I dati sulla disuguaglianza della ricchezza prima ricordati sono, però, molto probabilmente sottostimati a causa dell’evasione fiscale. Analisi recenti basate su dati provenienti dalle successioni ereditarie pervengono a risultati che vanno proprio in questa direzione.

Le ragioni dell’aggravarsi della disuguaglianza nei redditi da lavoro vengono ricondotte dalle teorie prevalenti al maggiore rendimento del capitale umano per effetto della globalizzazione e delle nuove tecnologie. Non vi è dubbio che il capitale umano è importante e che mediamente esso incide non poco sul differenziale retributivo. Ma ciò non vuol dire che da esso dipenda tutta o quasi la disuguaglianza nei redditi da lavoro. Infatti, risulta che è molto contenuta la quota di tale disuguaglianza spiegata dalle differenze nel capitale umano e, inoltre, che il premio retributivo consentito da quest’ultimo è in diminuzione da quasi due decenni, cioè proprio nel periodo in cui secondo la teoria prima menzionata avrebbe dovuto crescere[1] (M. Franzini e M. Raitano, 2015).

Dunque, altri fattori contribuiscono, ed in modo rilevante, a determinare questa disuguaglianza. Dire con precisione quali essi siano non è facile, ma è indiscutibile che la varietà delle forme contrattuali contribuisce a creare disuguaglianza a parità di capitale umano, così come sono certamente rilevanti abilità e competenze non cognitive e, soprattutto, le connessioni sociali che, quando sono favorevoli, permettono di ottenere redditi non giustificati dal capitale umano. Sull’importanza di queste ultime, nel nostro paese, esistono indizi molto consistenti.[2]

Tutto ciò suggerisce che il mercato del lavoro funziona ben diversamente da come dovrebbe secondo le teorie prevalenti e, soprattutto, mette in luce la possibilità che il background familiare abbia un peso assai maggiore di quanto si sia pensato nel determinare i redditi da lavoro percepiti. Infatti, si riconosce oramai da tempo che le disuguaglianze di reddito tra i genitori si trasmettono in parte ai figli per effetto del vantaggio che i figli dei ricchi hanno nell’accesso a un’istruzione elevata e quindi a un maggior capitale umano. Ma ora appare accertato che l’influenza dei genitori si manifesta anche attraverso altri canali come le abilità non cognitive (le cosiddette soft skills) e le relazioni sociali in cui sono inseriti. La violazione dell’eguaglianza delle opportunità, che tutti o quasi sembrano considerare sacrosanta, è dunque ben più grave ed estesa di quella, pur poco accettabile, che opera attraverso l’istruzione. Alla luce di tutto ciò non sorprende che l’Italia risulti essere uno dei paesi in cui maggiore è l’influenza delle condizioni economiche della famiglia di origine sul reddito da lavoro percepito in età adulta[3].

L’influenza della famiglia è, naturalmente, forte anche rispetto ai redditi da capitale. Infatti, i patrimoni trasmessi in eredità concorrono a determinare quei redditi e la tendenza è verso una loro importanza crescente negli ultimi decenni. Intatti, secondo alcuni studi – in particolare di Piketty – essi costituiscono una quota sempre più elevata dei patrimoni complessivi.

Dunque, dalle origini familiari dipendono in modo piuttosto consistente sia i redditi da lavoro sia quelli da capitale e ciò rende particolarmente poco accettabile una buona parte della disuguaglianza contemporanea. Occorre anche sottolineare che l’Italia è un paese con una disuguaglianza elevata che tende a trasmettersi in modo consistente da una generazione all’altra. E vi sono anche buone ragioni per pensare che i due fenomeni tendano a rinforzarsi in modo reciproco. Decisamente non si tratta di buone notizie per chi coltivi l’idea che il progresso sociale dovrebbe avere ben altre caratteristiche.

Al di là della sua altezza, la disuguaglianza, nel nostro paese, appare preoccupante anche per questa sua caratteristica. E le preoccupazioni aumentano se si pone attenzione anche ad altri aspetti, alcuni dei quali già richiamati: la tendenza dei redditi a concentrarsi sempre più al top; il funzionamento del mercato del lavoro che determina disuguaglianze ben poco meritocratiche; l’importanza dei rendimenti di patrimoni spesso accumulati guadagnando rendite in contesti ben poco concorrenziali e grazie all’una o all’altra forma di potere.

Siamo dunque di fronte a una disuguaglianza che sembra espressione di un sistema fortemente oligarchico e che si alimenta del perverso funzionamento di istituzioni che sempre meno appaiono idonee a svolgere il ruolo di garanti dell’efficienza e dell’equità che molte teorie hanno loro assegnato. Mi riferisco in particolare ai mercati nella loro generalità che, anziché essere strumenti di contrasto del potere, spesso sono strumenti di creazione e protezione del potere. Se le cose stanno così diventa più facile comprendere quanto si diceva all’inizio sulle due categorie di politici. La disuguaglianza è sempre più un problema di potere dei ricchi e forse per questo è difficile che fiorisca e si affermi una terza categoria di politici, quelli sinceramente preoccupati della disuguaglianza e che cercano di depotenziare i suoi propellenti.

Quei politici avrebbero solo l’imbarazzo della scelta sulle misure da adottare o di cui farsi promotori in contesti sovranazionali. Un ampio elenco al riguardo si può trovare nel Manifesto contro le disuguaglianze elaborato dall’Associazione Etica ed Economia e dal Nens (Nuova Economia Nuova Società). Quei politici saprebbero anche che le misure da adottare devono certamente avere un più efficace carattere redistributivo ma, soprattutto, devono intervenire sul funzionamento dei mercati per frenare la loro tendenza a produrre sempre più disuguaglianza, e del peggior tipo. Dunque devono essere predistributive. Se i mercati funzionano così è perché le politiche del passato hanno permesso, e voluto, che funzionassero così. E oggi è possibile farli funzionare in altro modo anche se non è facilissimo.


Che Fare?

Per iniziare a invertire la tendenza potrebbero essere sufficienti pochi interventi. Ne indico tre, due di carattere predistributivo e uno redistributivo. Le due misure predistributive sono:
  • Una diversa politica della concorrenza nel mercato dei beni che eviti il formarsi di rendite e di un eccessivo potere economico;
  • Un ben congegnato salario minimo che limiti la possibilità di una concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro.
Quella di carattere redistributivo è invece:
  • Una maggiore progressività del sistema fiscale che consenta di ottenere risorse aggiuntive da destinare principalmente alla rimozione degli ostacoli all’eguaglianza delle opportunità ed in particolare a quello che consiste nelle difficoltà di accesso all’istruzione più elevata di coloro che hanno avuto la sfortuna di nascere in famiglie povere.


Note al testo:

[1] Cfr. M. Franzini, M. Raitano, “Income Inequality in Italy; Tendencies and Policy Implications”, in Italy in a European Context. Reserach in Business, Economics and the Environment, a cura di D. Strangio e G. Sancetta, Palgrave MacMillan, London , 2015

[2] Cfr. M. Franzini, M. Raitano, F. Vona, “The Channels of Intergenerational Transmission of Inequality: A Cross-Country Comparison”, Rivista Italiana degli Economisti, 2013 n. 2, pp. 201-226

[3] Cfr. M. Franzini, M. Pianta, Le disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Laterza, Roma-Bari, 2016

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