Riflessioni a partire dal V Convegno SIAA. (Scopri di più su:
LavoroCulturale.org)
- di Elisabetta Dall’Ò, Irene Falconieri e Silvia Pitzalis
A seguito del
V Convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata, organizzato in collaborazione con
ANPIA e tenutosi dal 14 al 17 dicembre 2017 a Catania, pubblichiamo alcune riflessioni sul ruolo pubblico che l’antropologia può esercitare nell’affrontare le sfide imposte dai cambiamenti climatici e dai disastri.
Nell’illustrare gli ambiti di ricerca in cui l’antropologia è riuscita a esercitare un maggior impatto pubblico, Melissa Checker ci ricorda1 come cambiamenti climatici e disastri rappresentino oggi questioni cruciali per la disciplina antropologica. Con sempre più frequenza, infatti, le storie di vita dei soggetti con cui gli antropologi collaborano sono segnate dagli effetti di una «doppia crisi» ambientale e politico-economica, che attraversa ormai la contemporaneità.
Tali questioni, insieme all’accresciuta consapevolezza della scarsa efficacia delle misure internazionali poste in essere per affrontarle e all’emersione di problematiche sociali strutturali connesse a modelli di sviluppo economico globale, che generano ineguaglianze e producono nuove forme di vulnerabilità sociale, rappresentano interrogativi sempre più pressanti per il futuro del pianeta. In ambito accademico, le riflessioni su questi temi hanno contribuito ad avviare una revisione critica delle categorie analitiche e teorico-concettuali di taglio dualistico (natura/cultura; natura/società; soggetto/oggetto; scienza/politica) che forgiano tanto le narrazioni pubbliche quanto i discorsi scientifici. Il tentativo emerso è quello di ripensare i modi in cui esseri umani e non convivono nello stesso ambiente e si relazionano tra loro all’interno di un rapporto di reciprocità e interdipendenza2.
Nel cosiddetto Antropocene – l’era geologica in cui viviamo, caratterizzata dalla capacità dell’uomo di alterare i cicli eco-biologici delle altre specie – ragionare su clima e disastri significa includere in un più ampio discorso molteplici nozioni e concetti, in rapporto dialettico tra loro: dalle serie storiche ai modelli matematici, dai dati di memoria – compresa quella storico-linguistica dei luoghi del disastro3 – alle «memorie di futuro», fino agli scenari calcolati o attesi, ai rischi e alle vulnerabilità. Significa trattare elementi:
- «così epistemologicamente diversi da non avere neanche termini descrittivi comuni che li racchiudano tutti» (Bougleux 2017, 85).
Queste nozioni, infatti, «vivono vite diverse», con «cronologie distinte», valide, coerenti e utili su diverse scale, in epoche e spazi differenti (Bougleux 2017, 85). Significa, infine, reinterpretare gli attuali sconvolgimenti dei sistemi ambientali come momenti di crisi di modelli sociali e culturali che rendono la posta in gioco ecologica tanto rilevante da alterare il nostro rapporto col mondo4. Dunque, un’antropologia che si occupi di ambiente è oggi anche un’antropologia nell’ambiente, orientata a riconoscere storicità, socialità e culturalità delle risorse naturali, a individuare le diverse forme di agentività dei soggetti, plurali ed eterogenei, e di tener conto del «continuo “scivolamento” e “spostamento” delle reciproche posizioni nella società e nell’ambiente» (Breda 2012).
Soffio della valanga del ghiacciaio della Brenva (versante meridionale del Monte Bianco). Foto di Elisabetta Dall’Ò
Dagli anni Settanta del Novecento le ricerche antropologiche condotte in contesti colpiti da disastri o dalle conseguenze dei cambiamenti climatici hanno mostrato come questi fenomeni siano il risultato della mutualità tra storia sociale e ambientale5. Essi si generano nel punto di interconnessione tra natura, società e tecnologie, all’interno del quale agiscono e si incontrano diversi soggetti con le loro costruzioni materiali e immateriali6. Coinvolgono, inoltre, molteplici livelli della vita sociale, dal momento che, pur essendo localizzati in contesti specifici, sono il risultato di una intricata spirale di eventi di natura globale7. Contrariamente a quanto proposto dalle scienze sociali, oggi le narrazioni istituzionali e mediatiche offerte al grande pubblico si orientano invece maggiormente verso l’utilizzo di un approccio fisico-ingegneristico che da un lato poggia le sue fondamenta sullo studio delle caratteristiche tecniche degli eventi cosiddetti “eccezionali”; dall’altro legittima pratiche verticistiche di governance dell’emergenza e della ricostruzione, spesso decontestualizzate e destoricizzate, che rafforzano una visione vittimistica di persone e territori.
Far emergere il carattere storico, sociale, culturale e politico dei disastri rende ancora più evidente la relazione di causalità e co-implicazione che li interconnette ai processi di cambiamento climatico in corso. Sulla scorta di queste riflessioni, durante il V Convegno SIAA, tenutosi a Catania dal 14 al 17 dicembre 2017 in collaborazione con ANPIA, sono stati presentati due panel: Antropologia dei disastri tra impegno pubblico e collaborazione (Panel 1) e Approcci interdisciplinari ai cambiamenti climatici (Panel 9).
Sottolineando le potenzialità del dialogo inter- e intra-disciplinare, nel corso dei due panel sono stati dibattuti concetti complessi come quelli di “tempo”, “durata” e “profondità”, che hanno il potenziale di scardinare le narrazioni evenemenziali tanto dei disastri quanto dei cambiamenti climatici, agendo sul linguaggio, sui discorsi, sulle parole e le metafore necessari a descriverli ma che ancora sembrano sfuggire ai saperi esperti.
Il Convegno è stato un’occasione per proporre nuove possibili traiettorie di analisi epistemologica e metodologica su questi temi e indagare nuovi campi di intervento applicativo. Ciò sarà possibile solo acquisendo competenze disciplinari multivocali e multisituate, in grado di riflettere in chiave critica sulle potenzialità e i limiti della disciplina all’interno dello spazio e del dibattito pubblico.
Sono così risultati tre temi principali che hanno attraversato le relazioni presentate, creando un ponte tra i due panel.
Il primo riguarda l’utilizzo degli strumenti antropologici per analizzare, destrutturare e intervenire sulle narrazioni istituzionali e la percezione pubblica dei disastri e del cambiamento climatico. Le questioni generate da tali eventi coinvolgono gli interessi e gli immaginari dei molteplici attori dell’arena sociale: giornalisti, politici, operatori umanitari, tecnici, scienziati, funzionari, accademici, associazioni e cittadini. Le modalità con cui vengono comunicati, percepiti e contestualizzati giocano un ruolo decisivo nel determinare le risposte dei soggetti coinvolti e le pratiche di intervento istituzionale. A partire da eventi fortemente mediatizzati, come lo tsunami del Sud-Est asiatico nel 2004 e l’uragano Katrina in Louisiana nel 2005, questi fenomeni, prima appannaggio quasi esclusivo delle scienze “dure”, oggi richiedono l’intervento di saperi e competenze delle scienze sociali. Ciò non significa epurare l’analisi dai dati fisico-ingegneristici, ma farli dialogare con la loro dimensione socio-culturale e politica8 per restituirne, anche all’interno dell’arena pubblica, la complessità che li caratterizza. Diventa sempre più urgente per l’agenda antropologica sperimentare linguaggi nuovi e più fruibili, frutto di un «criticismo empiricamente fondato» (Forman 1993, 208) in grado di costruire un dialogo non solo con le comunità colpite dai disastri o coinvolte nei processi di cambiamento climatico ma anche con il mondo dell’expertise politico-istituzionale e tecnico-scientifica, intervenendo sui piani di previsione/prevenzione9 per mitigarne gli effetti.
Il lago glaciale del Miage che si sta ritirando (versante meridionale del Monte Bianco) con evidenti i segni dei livelli degli scorsi anni. Foto di Elisabetta Dall’Ò.
Un secondo ambito di intervento riguarda la definizione pubblica di disastro e cambiamento climatico, semanticamente legati alle idee di imprevedibilità, di contingenza e di emergenza. La visione dominante dei disastri e dei cambiamenti climatici, fondata sul paradigma emergenziale, tende ad escludere dall’analisi le responsabilità politiche che contribuiscono a causarli. Alimenta inoltre pratiche di intervento assistenzialista che, in nome dell’urgenza, legittimano acriticamente il potere10 e le sue narrazioni. La profondità d’analisi della ricerca etnografica è in grado di far emergere sia il surplus di vulnerabilità e sofferenza sociale indotto dai modelli verticisti e decontestualizzati di governance sia il loro potenziale creativo e rigenerativo11.
Un ultimo ambito di azione in cui l’antropologia può costituire un valore aggiunto riguarda le molteplici possibilità di advocacy, intesa come collaborazione partecipata tra l’antropologo e specifici attori individuali e collettivi (comitati, associazioni, gruppi informali), portatori di particolari esigenze – come per esempio Mara Benadusi e Roberto Barrios hanno recentemente mostrato12. Attraverso un approccio che restituisca la molteplicità di voci ed evidenzi le dinamiche di potere che agiscono in questi contesti, sarà possibile ripensare in chiave partecipativa le pratiche di gestione dell’emergenza e di ricostruzione, così come le sfide poste dai cambiamenti climatici.
Alla luce di quanto affermato pensiamo sia necessario costruire spazi di analisi e di azione in grado di rafforzare le potenzialità applicative dell’antropologia. In un momento storico particolarmente complesso come quello attuale, caratterizzato da un progressivo aumento delle disuguaglianze sociali e una sostanziale riduzione dei diritti, dal proliferare di retoriche e politiche razziste, dall’emersione di nuove forme di sofferenza sociale dovute anche all’intensificarsi di disastri naturali e tecnologici, gli antropologi hanno probabilmente il dovere, anche quando non perseguono un’esplicita vocazione applicativa, di produrre forme di conoscenza critica sui fenomeni che attraversano la contemporaneità che siano accessibili a un vasto pubblico. In tal senso il convegno di Catania ha rappresentato un importante momento di riflessione e un’occasione per riconnettere due ambiti affini e interrelati, ma ancora troppo spesso analizzati in modo indipendente. Da questa collaborazione siamo fiduciose potranno svilupparsi nuove e proficue e traiettorie che coinvolgano i diversi attori in campo.