Le parole come armi di distruzione di massa, un nuovo "DNA culturale". (Scopri di più su:
Gariwo.net)
- Analisi di Alberto Negrin, regista
Da alcuni mesi l'utilizzo di alcune parole e di termini una volta poco frequentati è diventato insistente fino a trasformarsi lentamente in pensiero comune, in 'DNA culturale' che dai giornalisti, dai comunicatori televisivi, dai leader politici si è esteso come un’inarrestabile epidemia fino a penetrare, in modo spesso acritico e senza le dovute riflessioni, nelle menti, nelle bocche, nei modi di dire, di pensare e di comunicare dei milioni di italiani che formano e danno identità a questo Paese.
Mi chiedo che cosa possa provare un cittadino italiano che magari non parla inglese, e forse nemmeno lo capisce, quando a ripetizione gli si parla e gli si scrive di 'fake news'. È un prodotto? È qualcosa che riguarda gli stranieri? Gli americani? È una cosa sicuramente straniera, ci riguarda? Sembra che con questa 'invasione' linguistica si voglia far credere che si tratta di qualche cosa di nuovo e pericoloso, di qualche cosa che arriva da Paesi stranieri, qualche cosa che in Italia, fortunatamente, non è ancora esplosa. Siamo ancora in tempo a fermarla? Perché non dire semplicemente che si sta parlando e scrivendo di bugie, di menzogne, prodotti che in questo Paese non sono mai mancati?
Mi chiedo che cosa possa capire quello stesso cittadino quando gli si parla ogni giorno, ogni istante, in qualsiasi situazione, di populismo. È una cosa buona? Riguarda il popolo? Si parla di come farlo stare meglio?
E 'islamista'? Probabilmente serve per indicare qualcuno che mi vuole fare del male, uno straniero, anche se vive nel mio stesso Paese, anche se ci lavora, ci studia, ha famiglia. È comunque, sia chiaro, uno che non fa parte della mia area culturale e religiosa, uno che non fa certamente parte della grande civiltà 'occidentale', quella civiltà che ha dato progresso e benessere al mondo intero. Probabilmente islamista è anche un modo per indicare un potenziale terrorista.
Che cosa significa dire 'gente di colore'? Di quale colore si parla? Di tutti i colori tranne il bianco o soltanto del colore scuro, di quello nero?
Che domanda sciocca! È ovvio che si intende indicare persone che provengono da Paesi africani, che hanno la pelle nera e che sono etnicamente diversi da noi. È chiaro no? E perché allora non diciamo che sono negri? Beh, non sta bene, è offensivo, fa pensare alla schiavitù, è maleducato, molto meglio un termine morbido come 'persona o gente di colore...', non vi pare?
A questo punto mi viene spontanea una domanda da fare a coloro – e sono la stragrande maggioranza – equamente divisa tra tutti gli schieramenti intellettuali, politici e anche religiosi, che sicuramente senza alcuna intenzione 'razzista' si esprimono appunto in questo modo 'cromatico' per indicare coloro che provengono da aree geografiche africane: perché definire soltanto loro 'di colore'? E noi, non abbiamo forse un colore anche noi? Perché di noi, a Londra, a Milano, a Parigi, ovunque nella comunicazione si parla di italiani mentre 'quelli là' al contrario sono identificabili sempre e soltanto come 'gente di colore?'
Sono i soli ad essere cromaticamente identificabili? Perché non si dice lo stesso di un cinese, di un giapponese o di un tailandese? È di 'colore' soltanto chi ha la pelle scura, nera? E ancora una volta la stessa domanda, non abbiamo anche noi un colore, non ci definiamo da sempre 'bianchi'? A Londra Parigi e Berlino nessuno si riferirebbe mai a noi come a dei 'bianchi', ci indicherebbero per quello che siamo: siciliani, calabresi o milanesi, quindi italiani.
Perché allora non facciamo lo stesso con queste persone 'di colore' indicandole per quello che sono: Egiziani, Kenioti, Nigeriani, Tunisini, Ghanesi o Ghaniani....?
Sono forse tutti daltonici coloro che scrivono, parlano, legiferano, giudicano utilizzando con grande noncuranza e incoscienza il termine 'persona di colore'? Oppure si tratta solo di persone, inconsapevolmente e involontariamente portatrici di una cultura in fondo in fondo 'razzista'?
È forse il 'bianco' il colore di riferimento? Il solo 'colore' che appartiene per nascita, per storia, per cultura, per religione alla civiltà? È forse come il Sole attorno al quale ruotano tutti i pianeti bisognosi di luce, calore e vita?
Come ci sentiremmo se, viaggiando con le nostre famiglie in un qualsiasi Paese africano, in Kenia, Tunisia o Sud Africa, anziché essere definiti Italiani, francesi o inglesi, venissimo considerati e qualificati come 'gente di colore' perché non siamo neri?
E se dicessero di noi che siamo dei cattolicisti? O dei cattolicanti?
L'uso delle parole diventa un'abitudine che con il tempo fa perdere il loro significato profondo, trasformandole in rapidi codici di comunicazione, in modi di dire vuoti di 'contenuto coscientemente offensivo' ma proprio per questo portatori di culture incontrollabili con un cuore che batte male, un cuore che può causare grossi malanni, infarti mortali, genocidi...
Alcuni importanti difensori del 'sangue italiano', disinvolti utilizzatori di molti dei termini di cui stiamo parlando, hanno una memoria molto corta e una istruzione ancora peggiore che non ha certamente superato le scuole elementari. Hanno dimenticato o forse non hanno mai saputo – perché nessuno glielo ha mai insegnato, anche se le biblioteche sono accessibili a tutti e non è mai troppo tardi per farsi anche solo una cultura di base – che in secoli passati questi civilissimi bianchi, cromaticamente indefinibili, bruciavano, impiccavano, crocifiggevano, mettevano al rogo e torturavano in modo terrificante coloro che venivano giudicati eretici, 'diversi', barbari, stranieri, seguaci di credenze, religioni, fedi politiche e ideologieconsiderate nemiche mortali dell'unica autentica civiltà di riferimento degna di questo nome?
Da secoli siamo stati educati, istruiti, e centinaia di anni fa anche in modo esemplare, con torture atroci, squartamenti, condanne al rogo, con accuse di eresia e di blasfemia, ci sono state guerre devastanti che hanno prodotto milioni e milioni di morti, con perdite umane che nessuna epidemia ha mai eguagliato, prodotte da milioni di esseri umani che si sono combattuti nella convinzione che la propria era la 'giusta fede', che il proprio 'era il vero Dio', che il proprio era 'il Partito della verità e della giustizia al servizio della sacralità della Patria...'.
Le parole hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita dei popoli e il loro utilizzo, in questi tempi di comunicazione globale incontrollabile, può ancora facilmente trasformarsi in odio, in contrapposizioni mortali, in guerre totali, in atrocità senza fine come è stato con lo sterminio di milioni da parte della Germania nazista. L'Isis non ha inventato nulla di nuovo e sconosciuto, ha avuto ottimi maestri e ne perpetua la tradizione e l'insegnamento.
Le parole male utilizzate, le parole che vengono 'consumate' e 'sperperate' come se si trattasse solo di innocue e passeggere creazioni mentali utili a soddisfare momentanee ambizioni di potere, di denaro o di successo e che si ritiene si possano poi facilmente abbandonare sostituendole spregiudicatamente con altre nuove, quelle stesse parole, considerate prive di vita propria, continuano invece a penetrare nelle menti e nelle bocche degli umani, superando confini, bandiere, oceani, trasformandosi in una delle più terribili, formidabili e incontrollabili armi di distruzione di massa che l'uomo abbia mai concepito.
Mi viene in mente l'aria del 'Barbiere di Siviglia' :
La calunnia è un venticello,
un'auretta assai gentile
che insensibile, sottile,
leggermente, dolcemente,
incomincia a sussurrar.
Piano piano, terra terra,
sottovoce, sibilando,
va scorrendo, va ronzando;
nelle orecchie della gente
s'introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo,
prende forza
a poco a poco,
vola già di loco in loco;
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta
va fischiando, brontolando
e ti fa d'orror gelar.
Alla fin trabocca e scoppia,
si propaga, si raddoppia
e produce un'esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale,
che fa l'aria rimbombar.'
Lo stesso accade per le parole e per le cosiddette 'fake news'. Faccio un altro esempio che mi pare piuttosto esemplificativo: perché, di questi tempi, quando si verifica un fatto criminoso e/o terroristico si dice, si scrive e si parla di 'islamisti' e quando invece si tratta di camorra, 'ndrangheta, Mafia, si dice camorristi, ndranghetisti o mafiosi? Perché non vengono identificati anche loro come ndranghetisti cattolici, camorristi cattolici o mafiosi cattolici? Perché non si fa alcun cenno alla loro religione? E se una qualsiasi radio del Cairo, di Gedda, di Kabul, Damasco o Teheran lo facessero? Come reagirebbero coloro che si definiscono di 'sangue italiano'? Presenterebbero interpellanze in Parlamento chiedendo persino la rottura dei rapporti diplomatici con quei colpevoli Paesi qualora non presentassero le loro immediate e profonde scuse? Proporrebbero l'espulsione in massa di quei pericolosi cittadini Sauditi, afgani, iraniani...tutti appunto islamisti? Perché quando le 'vittime' siamo noi 'bianchi occidentali' si grida accusando di incitamento all'odio razziale e religioso? Perché per noi vale un diritto che non riconosciamo a quei Paesi 'islamisti'? Ma come vi permettete di fare paragoni, gridano i sostenitori nostrani della civiltà occidentale e del 'sangue italiano'? Quando diciamo che qualcuno è un 'islamista' o 'islamico' è per far capire che si tratta di un gruppo etnico-culturale-religioso che per sua natura è pericoloso, in quanto tale, mentre per la criminalità organizzata si tratta in fondo solo di una eccezione, perchè il corpo è sano, anche se ci sono dei fastidiosi bubboni. Stiamo scherzando a fare paragoni? Nessuno è crudele come quei selvaggi che tagliano le teste! Ogni paragone è assolutamente improponibile!
Ecco allora che in questa 'disputa' linguistica si introduce in modo 'pacificatorio' l'uso frequente della parola tolleranza. La tolleranza di solito è un gesto unilaterale di qualcuno, di gruppi o di popoli che 'tollerano' idee, comportamenti, persone diverse da loro. E mi pare che anche in questo caso dietro alle parole apparentemente innocue o addirittura encomiabili, si possa nascondere sempre in modo inconsapevole, senza che si sia riflettuto, un modo di concepire i rapporti tra le persone che al suo interno, nel suo intimo, nasconde il pericoloso principio della diseguaglianza tra civiltà, culture, opinioni. Perché quando si ricorre a questo termine che non ha alcun valore legale, che non può essere sancito da nessuna legge vincolante in quanto si tratta di un atteggiamento volontario e non obbligatorio, si accredita l'idea della 'disuguaglianza'. Altrimenti perché incitare alla tolleranza? Se i miei diritti sono gli stessi dell'immigrato che lavora, paga le tasse, non commette reati, produce lavoro e anche ricchezza, perché è necessaria la tolleranza, non bastano delle leggi uguali per tutti che stabiliscano stessi diritti e identici doveri per tutti?
Ecco nuovamente una parola che al suo interno, inconsapevolmente, in assoluta buona fede, nasconde il germe distruttivo del suo contrario, dell'intolleranza e della conseguente disuguaglianza.
La tolleranza dei puri di cuore, fatta di generosità, altruismo e estrema bontà, rischia di contribuire involontariamente a perpetuare lo status quo di una disuguaglianza considerata intoccabile da molti dei nostri concittadini di 'sangue italiano'.
E se qualcuno di coloro definiti 'di colore' si sottoponesse a un’integrale trasfusione sostituendo il proprio con il preziosissimo e meraviglioso 'sangue italiano' doc? Risolverebbe tutti i suoi problemi di uguaglianza che vanno dai diritti civili più banali fino allo Ius Soli?