Nonostante il momentum economico positivo (+2,4% di crescita del PIL reale), il 2017 non ha rappresentato l’anno della svolta per l’Eurozona. La crescita è stata molto eterogenea tra i Paesi membri, e per alcuni (come l’Italia) sembra trattarsi di una “ripresa al traino” ancora molto fragile. La stessa BCE a fine dicembre ha previsto un rallentamento negli anni a venire per l’area euro: +2,3% nel 2018 e addirittura meno del 2% nel 2020. (Scopri di più su:
GliStatiGenerali.com)
Le cose non vanno meglio dando un’occhiata allo spread: in termini reali, cioè al netto dell’inflazione, il differenziale di rendimento tra i nostri titoli governativi e quelli tedeschi supera i 200 punti base, ai livelli del primo trimestre 2012 in piena crisi del debito sovrano dell’Eurozona e pari al dato medio del 2011.
Non stupisce. Per quale motivo gli operatori dovrebbero migliorare le loro valutazioni sulla tenuta dell’Euro se poco o nulla è stato fatto per renderlo più resiliente a shock economico-finanziari? Anzi, tutti i provvedimenti attuati dall’inizio della crisi dei debiti sovrani hanno segregato i rischi negli Stati dimenticando l’esistenza della valuta unica e le sue implicazioni.
Così sono state de facto esplorate nuove teorie di politica economica che – dimenticando il ruolo fondamentale degli aggiustamenti dei tassi di cambio nel riequilibrare le differenze tra le economie dei diversi Paesi – hanno affidato le funzioni di gestione dei rischi nazionali al solo tasso di interesse. Un nonsenso che viola paradigmi elementari dell’economia politica quali ad esempio quello in base a cui una valuta non può che avere un’unica struttura a termine dei tassi di interesse a meno di non voler determinare indebiti trasferimenti di ricchezza tra le varie nazioni.
Eppure basterebbe osservare i grafici di Hicks-Hansen che studiano la relazione tra investimenti-risparmi e preferenze per la liquidità-offerta di moneta. In quei grafici c’è un solo tasso di interesse e non 19 diversi come nell’Eurozona. Invece di osservare questi fatti si preferisce disquisire di finanza in maniera impropria ed interpretare semplicisticamente lo spread come fenomeno dovuto al diverso rischio-Paese, magari anche servendosi di altrettanto impropri paragoni con i tassi di interesse pagati dai singoli Stati degli USA. Peccato che i debiti degli Stati americani siano parva res rispetto al debito federale; peccato che il bilancio federale degli Stati Uniti sia molto più che una goccia nell’oceano come invece è quello dell’Eurozona.
Ma soprattutto peccato per chi non capisce che i rischi-Paese dietro gli spread sovrani dell’area euro sono diversi non per colpa dell’irresponsabilità fiscale della periferia ma per via di meccanismi di funzionamento distorti della nostra area valutaria, a partire proprio dalla segregazione dei rischi. Se i rischi non sono condivisi, i capitali affluiranno laddove i rischi sono minori e l’unico modo con cui un sistema più rischioso potrà contrastare questa tendenza sarà quello di pagare rendimenti più alti.
Si può discutere a oltranza su cosa rappresenti lo spread, ma il punto è essere onesti nel riconoscere che le cause del diverso rischio-Paese dei membri dell’Eurozona non possono essere acriticamente individuate nel debito pubblico eccessivo di membri come l’Italia senza chiedersi perché dall’inizio della crisi questo debito sia esploso. La risposta è infatti che all’epoca le grandi banche tedesche e le loro colleghe francesi hanno chiuso i rubinetti del credito facile elargito a imprese e famiglie dei Paesi periferici per finanziare le loro strategie mercantilistiche dei primi anni 2000, costringendo i governi del Sud Europa ad intervenire a compensazione facendo debito. Le figure seguenti offrono un’istantanea di quanto appena descritto.
E perché questa stretta del credito? Semplice: già allora Germania e Francia avevano ben chiara la volontà di segregare i rischi. Eppure questo i sostenitori dello spread come termometro del rischio-Paese lo tacciono, preferendo lanciarsi in interpretazioni capziose di concetti pur chiari ed inequivocabili. Sostenere (come il sottoscritto) che tutti i titoli di Stato dell’Eurozona dovrebbero avere lo stesso rendimento non significa (come interpretano alcuni) negare che attualmente i rischi-Paese siano eterogenei, ma piuttosto prendere atto che queste diversità scaturiscono da patologie della nostra unione monetaria che devono essere corrette.
E c’è di più. Gli spread non esprimono solo il rischio-Paese: visti congiuntamente – dato il rischio di ridenominazione quotato anche dai credit default swap, esaminato attraverso le definizioni date dall’ISDA (International Swaps and Derivatives Association) – misurano il rischio di rottura dell’Euro come ho avuto modo di spiegare già diversi anni fa in
un articolo su RISK Magazine.
Non a caso quando questi indicatori raggiunsero il picco nel dicembre 2011 l’allora governatore della Bank of England (Mervyn King) disse che bisognava pensare a un piano B per affrontare lo scenario di rottura dell’euro.
Se il 2017 non ha segnato la svolta, il 2018 potrebbe essere addirittura l’anno della tempesta perfetta a meno che politica monetaria e fiscale come dicono Sargent e Wallace non vengano completamente ripensate ed indirizzate ad operare sinergicamente per dare il boost alla crescita ed alla convergenza dei cicli economici dei Paesi membri.
Dal 1° gennaio di quest’anno la BCE ha rallentato il ritmo degli acquisti di titoli nell’ambito del Quantitative Easing portandolo a 30 miliardi mensili rispetto ai precedenti 60, ma tenuto conto che le Banche Centrali Nazionali (BCN) dell’area euro si impegnano a ricomprare i titoli in scadenza, in fondo il rallentamento è ancora poca cosa.
Il vero dilemma riguarda piuttosto se e come gestire la chiusura effettiva del programma dato che un tapering come quello deciso dalla FED qualche mese fa potrebbe non essere percorribile. Dopotutto anche la FED ha aspettato diversi anni prima di avviare la riduzione dello stock di titoli acquistati; e comunque per l’Eurozona la sola strategia attendista potrebbe non bastare. Assai meglio sarebbe optare per un preliminare trasferimento a titolo oneroso (i.e. una compravendita) dei titoli dalle BCN alla BCE con conseguente mutualizzazione dei rischi. Giusto per dire uno dei vantaggi: i saldi Target 2 (cioè il sistema dei pagamenti interbancari transfrontalieri dell’Unione Europea) che oggi vedono noi e altri Paesi della periferia indebitati contabilmente per centinaia di miliardi di euro verso la Germania e i suoi Paesi-satellite smetterebbero di gonfiarsi come accaduto dalla seconda metà del 2014.
Nell’agenda 2018 c’è anche la trasposizione del Fiscal Compact (nato nel 2012 come accordo intergovernativo) nelle leggi dell’Unione Europea. Ma la trasposizione non può e non deve essere un mero formalismo bensì un’occasione per ricalibrare le regole in materia di conti pubblici; non si può ignorare infatti che il “Patto di Bilancio come le revisioni di fine 2011 al Patto di Stabilità e Crescita ci hanno imposto un’austerità sbagliata. Il concetto di saldo strutturale va rivisto per scorporare la spesa pubblica destinata a investimenti produttivi e per rendere più oggettivo il calcolo dell’output gap, quella grandezza che, stando alle stime degli Euro-burocrati, dice che nel 2018 il nostro PIL utilizzerà al meglio tutti i fattori produttivi. Difficile da credere dato che il nostro tasso di disoccupazione rimane sopra l’11%, il 30% della forza lavoro non è impiegato come potrebbe e gli investimenti sono al palo da anni.
L’anno appena iniziato potrebbe anche vedere la trasformazione del Fondo Salva Stati (ESM) in un “Fondo Monetario Europeo” incaricato di monitorare e realizzare l’austerità. Insomma dal prototipo alla produzione in serie. E c’è anche il rischio che le CAC, cioè le clausole di azione collettiva che dal 2013 accompagnano i titoli di Stato di nuova emissione dei Paesi dell’area euro, limitando la possibilità di ridenominazione in una nuova valuta, diventino CPC (cioè Creditor Participation Clauses) che questa possibilità la escludono definitivamente. Insomma: altre perdite di sovranità francamente ceduta in cambio di nulla.
Eppure non sarebbe impossibile prevedere una revisione degli accordi sul Fiscal Compact e sull’ESM per trasformare il Fondo Salva Stati in un’istituzione coerente con il suo nome. E cioè in un Ministero delle Finanze e dello Sviluppo Economico dell’Eurozona che assicura il debito pubblico degli Stati membri a fronte del pagamento di un premio a mercato e investe i proventi di questa operazione finanziaria in investimenti ad alto moltiplicatore. Altro che CPC: sotto l’ombrello dell’ESM il debito sarebbe assistito da clausole di condivisione dei rischi (risk-sharing) con un progressivo azzeramento degli spread, proprio come accadde nella seconda metà degli anni ‘90, periodo in cui tra l’altro l’euro non esisteva ancora e i mercati scommisero sulla convergenza dei tassi di interesse senza neanche avere una struttura portante di appoggio.
In mancanza di simili inversioni di rotta le differenze si accentueranno sempre di più, amplificate da ulteriori provvedimenti improntati alla nazionalizzazione dei rischi. Così il 2018 potrebbe essere l’anno in cui si mette in pratica la discriminazione dei titoli di Stato dei Paesi membri in base al rischio nei bilanci di banche, assicurazioni e fondi. Diversi sono infatti i documenti delle istituzioni europee che affrontano questo tema talora in termini di ponderazione per il rischio dei titoli emessi dai diversi Stati membri ed in altri casi come limiti alla concentrazione dei rischi di uno stesso emittente sovrano in portafoglio, peraltro con argomentazioni quantitative spesso discutibili se non addirittura contraddittorie.
Altro che Govies dell’Eurozona come gli US Treasuries, cioè con un unico rischio. Eppure sinora – salvo rare eccezioni, peraltro definite dopo il 2011 – le norme comunitarie non hanno previsto e non prevedono discriminazione di rischiosità tra i titoli dei Paesi membri dell’euro. Ed è corretta questa regola in quanto ha portato i sistemi finanziari ad investire nei debiti pubblici dei vari Paesi membri senza distinzione permettendone quella Europeizzazione che purtroppo nell’ultimo decennio ha ceduto il posto ad un’impietosa nazionalizzazione. È dal concetto di Govies di una federazione di Stati Europei che si deve ripartire e non dall’idea che ci possano essere debiti autonomi degli Stati membri peraltro così grandi rispetto al totale e soprattutto in presenza del vincolo di una moneta comune. Anche perché altrimenti medio tempore l’unica soluzione rischia di essere la disgregazione dell’area euro.
Veniamo al tema dei crediti deteriorati (NPL). I diversi i provvedimenti in cantiere (a partire dall’addendum messo in consultazione lo scorso ottobre dalla BCE) mirano a rimuovere il più rapidamente possibile dai bilanci delle banche questi attivi rischiosi anche se questo può voler dire la desertificazione di interi sistemi produttivi e magari il facile arricchimento di società-avvoltoio con sede extra-UE.
Nei prossimi mesi ci saranno nuovi stress test che si occuperanno del tema. E ricordiamo che la messa in sicurezza dei rischi dei NPL condiziona pesantemente anche l’attivazione del Fondo Europeo di Tutela dei Depositi. Altro nonsenso: si avvia uno strumento di condivisione dei rischi quando i rischi sono stati eliminati o largamente ridimensionati. Cui prodest?
Non era questo il progetto dell’Unione Bancaria. I 3 pilastri (vigilanza unica, meccanismo di risoluzione e fondo di tutela dei depositi) dovevano partire insieme per essere sinergici e invece si è partiti subito con vigilanza bancaria e bail-in fornendo così all’Euro-burocrazia gli strumenti per dedicarsi al tema dei crediti deteriorati ma dimenticando due dettagli. Uno che se azzoppi l’economia con l’austerità i crediti problematici aumentano, e due che – oltre ai crediti non performing – ci sono anche altri seri rischi per le banche, a partire dai 6800 miliardi di euro di strumenti finanziari di Livello 2 e 3, di cui il 30% nei bilanci delle banche tedesche e oltre il 40% in quelle francesi. Su questo problema la vigilanza Europea continua a tenere spenti i suoi “fari”. Eppure nel caso dei NPL almeno si sa che il loro valore effettivo oscilla tra il 10% e il 40% di quello nominale (e peraltro è imputabile per 1/3 a interessi), mentre del fair value di questi strumenti complessi si sa veramente poco; e per il 5% (cioè quelli di Livello 3) praticamente nulla. Sempre che siano solo il 5% dato che il criterio per la classificazione alternativa tra Livello 2 e Livello 3 lascia ampi margini di discrezionalità.
Da qui l’utilità di una nuova Asset Quality Review (la procedura di ricognizione del valore degli attivi attraverso gli stress test) che tenga conto della qualità di tutti gli attivi bancari (non solo i crediti) e che distingua secondo criteri oggettivi i crediti deteriorati riferibili a imprese definitivamente fuori dal mercato rispetto a quelli di imprese che invece possono tornare ad essere competitive. I primi vanno impacchettati attraverso soluzioni di cartolarizzazione assistite da adeguate garanzie pubbliche nazionali e sovranazionali e, quindi, venduti a prezzi di mercato alla BCE attivando la sua decisione n. 45 del novembre 2014. Per gli altri, quelli delle imprese che possono farcela, il valore del debito nei libri contabili dell’impresa deve essere allineato al valore netto contabile del corrispondente credito nell’attivo della banca, cioè al valore rettificato degli accantonamenti già fatti al fondo svalutazione crediti. A fronte di queste svalutazioni le banche hanno infatti maturato crediti fiscali e le imprese – a causa delle perdite conseguite – hanno smesso di pagare le tasse. 100 miliardi di gettito sono già stati perduti nell’ultimo lustro per via di questo circolo vizioso il che significa che la collettività ha già pagato. Questi crediti non vanno ceduti a prezzi da saldo ai fondi-avvoltoio (unica alternativa se il contesto normativo preme per un’immediata pulizia dei bilanci bancari), ma piuttosto svalutati nel bilancio delle imprese con un beneficio fiscale per le parti in causa e assistiti da una garanzia dello Stato. In questo modo le imprese potrebbero riottenere l’accesso al credito e le banche interrompere gli accantonamenti ma soprattutto il sistema banca-impresa riprenderebbe a fare da volano per il nostro sistema produttivo. In parallelo, a livello europeo andrebbe subito archiviata l’indagine per verificare se i crediti d’imposta sulle svalutazioni dei crediti siano o meno aiuti di Stato: non solo perché questi crediti sono oggi una parte importante del patrimonio delle banche ma anche perché non è ammissibile che prima si dia una facoltà alle banche e poi si cambi idea in itinere mettendo così ancora una volta a rischio la loro capacità di essere vicine all’economia reale.
Con queste misure i crediti deteriorati possono diventare un valore per la nostra economia.
Per tutto questo serve una nuova classe dirigente che abbia coraggio e operi con un orizzonte temporale decennale; servono Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann. Buon anno.