A partire dalle considerazioni e dai progetti racconti nella rubrica” Cultura e welfare” che Il Giornale delle Fondazioni ha dedicato al tema del welfare culturale, Flaviano Zandonai (Iris Network, Euricse), richiamandosi in particolare ai contributi di Pier luigi Sacco e di Bertram Niessen, si propone di “tentare un avanzamento della riflessione secondo una prospettiva di policy design”. Da
Welfare Oggi. Rubrica di ricerca in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. (Scopri di più su:
IlGiornaleDelleFondazioni.com)
- Articolo a cura di: Flaviano Zandonai
Il Giornale delle Fondazioni, una importante testata online che approfondisce svariate tematiche riguardanti il ruolo e l’operatività degli enti filantropici, ospita da qualche tempo un interessante progetto di ricerca dedicato a
“Cultura e Welfare”. L’indagine, realizzata con il sostegno di Fondazione CRC, si basa sulla raccolta e la rilettura di iniziative di origine sia pubblica che di privato sociale dove modelli di servizio di origine socio-assistenziale e culturale trovano modo di combinarsi in progetti di inclusione, socializzazione, cura etichettati come “welfare culturale”.
I contributi di taglio esperienziale sono intercalati da interventi destinati a modellizzare, per quanto possibile, l’estrema varietà dei casi presentati: dal teatro per i migranti alle visite museali per persone malate di Alzheimer, dai festival sulla cittadinanza attiva alle performance culturali nell’ambito di processi di rigenerazione urbana.
Questi contenuti con intento di sistematizzazione vengono presentati come “appunti”, destinati cioè a definire una prima base conoscitiva che consenta di dare più consistenza alle progettualità di welfare culturale sia in termini qualitativi che di sostenibilità.
Queste riflessioni, nel loro insieme, catturano alcune trasformazioni profonde che investono sia gli interventi di protezione sociale che le iniziative di produzione e tutela di beni culturali creando le condizioni per una loro complementarietà. Nel primo caso si denota una progressiva e sempre più ampia dislocazione del welfare a ridosso dei luoghi di vita delle persone e delle comunità (abitazione, lavoro, spazi ricreativi, ecc.) e non solo all’interno di “centri servizi” espressamente dedicati alla erogazione di servizi di cura, assistenza, educazione ecc.
Sul versante culturale si denota, seppur con diversi gradi di intensità, la tendenza ad ingaggiare nella performance e nella gestione una gamma sempre più vasta di interlocutori, ad iniziare da un “pubblico” visto sempre meno come fruitore passivo e sempre più come “attore”.
A fronte del riconoscimento di una possibile convergenza è possibile utilizzare le esperienze e gli appunti raccolti attraverso questa indagine per tentare un avanzamento della riflessione secondo una prospettiva di policy design.
L’orientamento in termini di politica piuttosto che di gestione o di analisi conoscitiva in senso stretto è giustificato da diversi fattori che lo stesso percorso di ricerca contribuisce a evidenziare.
In primo luogo emerge una certa maturità delle esperienze di welfare culturale (e non solo di quelle censite dalla ricerca), per cui si pone il problema di inquadrarle non semplicemente come sperimentazioni o innovazioni emergenti, ma come vere e proprie risorse da incorporare sia sul versante della produzione culturale che della gestione di servizi sociali, educativi, sanitari, ecc.
In secondo luogo approcciare in chiave di politica il welfare culturale può consentire di cogliere una più ampia tensione di riforma che riguarda anche altri ambiti della protezione sociale, alcuni dei quali presentano elementi di vicinanza con il settore culturale: welfare aziendale, welfare comunitario, tecnologie a impatto sociale, ecc. Ambiti diversi, ma accomunati dall’intento di arricchire il welfare incorporandolo ancor di più negli spazi vitali dove avvengono i principali processi di riproduzione sociale (coesione, inclusione, socializzazione, fiducia).
Sul fronte culturale, inoltre, la dimensione “sociale” è sempre più parte integrante dei modelli di gestione, in un Paese in cui, vale la pena di ricordarlo, tutto ciò che è cultura sia in senso stretto (gestione diretta) che di indotto (ad esempio il turismo) rappresenta una risorsa di sviluppo importante e con notevoli margini di miglioramento, come dimostra, ad esempio, il nuovo rapporto
“Io sono cultura” di Fondazione Symbola dove si calcola che per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,8 in altri settori (il già citato turismo, ma anche agricoltura, artigianato, ecc.). Infine il welfare culturale sollecita tutti quei dispositivi di politica che riguardano le forme organizzative, in particolare sul fronte del terzo settore e dell’impresa sociale, ma non solo.
Si pensi ad esempio ai soggetti come le industrie creative piuttosto che, su altri fronti, le strutture pubbliche e pubblico-private che gestiscono beni culturali (musei, teatri, ecc.). In altre parole la cultura costituisce un importante terreno di confronto rispetto al “valore aggiunto” rappresentato dai diversi modelli organizzativi e forme giuridiche perché una struttura o un servizio culturale può essere gestito da un’amministrazione pubblica, locale o centrale, da una società pubblica o da una fondazione, o ancora da un’associazione, una cooperativa o un’impresa sociale.
“Mettere ordine” in questo campo significa quindi ri-tracciare i confini tra pubblico e privato, profit e nonprofit, locale e nazionale con le inevitabili “sfumature” che sempre più spesso caratterizzano queste partizioni istituzionali, organizzative, territoriali e funzionali.
Sulla base di queste premesse, il primo capoverso di una ipotetica (e auspicabile) politica di welfare culturale riguarda la definizione dell’oggetto.
Può apparire un tema quasi scontato, ma nei fatti rappresenta ancora un punto irrisolto, non tanto rispetto al perimetro dei significati ma piuttosto ai riscontri in termini di riconoscibilità ed efficacia. In un “appunto” firmato da Pierluigi Sacco, economista della cultura e riferimento sul tema a livello nazionale e internazionale, la questione definitoria viene posta in modo molto chiaro e sfidante.
“Parlare di welfare culturale - sostiene Sacco - vuol dire, in ultima analisi, inserire in modo appropriato ed efficace i processi di produzione e disseminazione culturale all’interno di un sistema di welfare e quindi farli diventare parte integrante dei servizi socio-assistenziali e sanitari che garantiscono ai cittadini le forme di cura e accompagnamento necessarie al superamento di criticità legate alla salute, all’invecchiamento, alle disabilità, all’integrazione sociale e a tutte le problematiche a cui si associa il riconoscimento di un dovere di tutela sociale” (corsivo dell’autore).
È quindi importante raccogliere riscontri di natura scientifica il più possibili circostanziati rispetto alla presenza e alla eventuale consistenza della correlazione tra partecipazione e fruizione culturale e condizioni psico-fisiche delle persone che ne fruiscono, oltre che, in senso più ampio, dei livelli di benessere, coesione e capacità inclusiva che caratterizzano più ampie comunità locali a vario titolo coinvolte in iniziative di welfare culturale.
I riscontri di ricerca esistono: da quelli più puntuali che, ad esempio, correlano fruizione culturale e terapie farmacologiche, a quelli più articolati che riconoscono nei nascituri le basi biologiche dell’esclusione sociale legate alla storia culturale dei genitori.
Questi risultati sul fronte scientifico evidenziano la necessità di sviluppare una più ampia capacità di produrre soluzioni efficaci rafforzando la dimensione valutativa dei progetti di welfare culturale con l’intento di rendere più solido il legame tra dimensioni culturale e sociale.
Oggi infatti - sempre secondo Sacco ed altri autori coinvolti nell’indagine - sembra prevalere un approccio legato al riconoscimento di singole buone pratiche dove la compenetrazione tra le due dimensioni avviene più come un epigono dell’una rispetto all’altra, declassando così il welfare culturale a una sorta di apporto residuale e di “déjà vu”.
Eppure, come si ricordava in apertura, ci troviamo in una fase storica dove invece si moltiplicano le iniziative di welfare legate all’attivazione di comunità locali e delle loro risorse all’interno di contesti non ordinari, mentre invece sul fronte della produzione culturale assumono crescente rilevanza le pratiche e le strategie di coinvolgimento attivo del pubblico (audience engagement) anche grazie all’utilizzo di tecnologie digitali che puntano sulla valorizzazione delle relazioni tra persone all’interno di community dove si scambiano informazioni e conoscenze.
La tecnologia digitale dell’informazione e delle conoscenza che agisce quindi sia come catalizzatore che come amplificatore di relazioni muovendosi lungo una asse che vede da una parte la crowd - una folla indistinta, ma certamente più ampia rispetto a qualsiasi altra modalità analogica di aggregazione – e dall’altra nuove comunità dove la prossimità e il mutuo riconoscimento non derivano dalla sola condivisione di uno spazio fisico, ma soprattutto da progetti e iniziative che diventano di interesse comune in corso d’opera, ovvero coalizzando tanti interessi individuali.
Un meccanismo che peraltro si rende visibile non solo nel campo culturale, ma anche in altri settori come dimostra, ad esempio, la declinazione “esperienziale” del turismo sempre più mediata da piattaforme digitali dedicate a favorire non solo la fruizione delle strutture ma l’incontro tra le persone e le comunità locali.
Oppure la raccolta fondi attraverso piattaforme di crowdfunding che ampliano la platea dei donatori / finanziatori, ma al tempo stesso contribuiscono ad arricchire la comunità di progetto che si forma intorno all’iniziativa che richiede il finanziamento.
Una volta comprese e misurate le implicazioni tra cultura e welfare, il secondo capoverso riguarda invece l’individuazione dei focus caratterizzanti le politiche di welfare culturale. Come dimostrano le esperienze raccolte nell’ambito della ricerca del Giornale delle Fondazioni, le applicazioni possono essere molteplici, ma da una categorizzazione anche solo sommaria emergono tre importanti ambiti applicativi.
Il primo è quello legato alle iniziative di prevenzione e di attenzione agli stili di vita, dove il coinvolgimento in contesti di fruizione e performance culturale può consentire di amplificare i livelli di consapevolezza rispetto all’impatto generato dalle azioni individuali e collettive rispetto a diverse tematiche: modelli di consumo (alimentari e non), qualità degli elementi ambientali, paesaggistici e del contesto sociale, ecc.
Un ambito nel quale ricombinare anche iniziative sviluppate in campo sociale ad esempio tutto ciò che ha a che fare con l’interculturalità, per cui la cultura nelle sue varie forme – musica, tradizioni, cibo – diventa vettore per l’integrazione.
Il secondo macro ambito di applicazione del welfare culturale riguarda le pratiche di inclusione sociale attraverso piani terapeutici e formativi individualizzati mediati da strutture e servizi culturali, ad esempio percorsi psicologici e terapeutici o di integrazione che sfociano in espressioni teatrali che coinvolgono particolari categorie di utenti dei servizi di welfare come disabili o detenuti.
Esperienze che, come ricordato in precedenza, muovono dal riconoscimento che “l’esposizione prolungata” a forme di disagio socioeconomico genera patologie a vari livelli, non solo per quanto riguarda le capacità relazionali e di socializzazione, ma anche fisiche e psicologiche.
Il terzo focus riguarda la cultura nei processi di community building, sia con funzione di rappresentanza e tutela, advocacy sui bisogni, sia per scoprire e condividere nuovi e vecchi “collanti” di coesione e fiducia tra soggetti che abitano un contesto che, per ragioni diverse, è sottoposto a “shock” ambientali e socio economici che ne modificano la stratificazione originaria (ad esempio spopolamento, modificazioni del tessuto urbanistico e produttivo, nuovi abitanti, ecc.).
Il terzo capoverso riguarda le strategie formative rivolte agli “addetti ai lavori”, considerando sia la capacità di intervenire, grazie alla fruizione culturale, sul potenziamento dei livelli di resilienza dei professionisti della cura e dell’assistenza, attenuando così rischi di patologie da burnout, sia per quanto riguarda la capacità di questi ultimi di arricchire la relazione di servizio.
Per certi versi anche i servizi sociali non sono solo prestazioni rigidamente codificate da protocolli e mansionari, ma assumono, soprattutto in determinati campi come i servizi territoriali e di aggregazione, una connotazione di “performance” caratterizzata, ad esempio, da competenze di natura narrativa (storytelling) che si possono ricondurre a modelli di teatralità.
Un tema, quest’ultimo, particolarmente urgente in una fase in cui il welfare è sottoposto a processi di razionalizzazione delle prestazioni per esigenze di controllo costo-qualità che, in alcuni casi, sono andati a discapito della qualità relazionale. Ricostruire, attraverso il medium della cultura, la prestazione di servizio come bene relazionale chiama in causa il rapporto, sempre più ricco di ambivalenze, tra utente e fruitore, in particolare guardando al modo in cui si originano e si colmano i divari informativi e alle modalità attraverso cui si alimenta e gestisce la propensione alla partecipazione e alla coproduzione dei servizi di protezione sociale. In questo senso le progettualità di welfare culturale dovrebbero vedere tra i beneficiari principali, come ricorda ancora Sacco, non solo i destinatari dei servizi, ma anche gli operatori affinché siano in grado di incorporare competenze di ambito culturale, in modo che queste ultime non siano considerate marginali rispetto alle hard skills assistenziali e curative.
Il quarto capoverso riguarda gli interlocutori del welfare culturale. La sfida, in questo caso, consiste nel coinvolgimento degli stakeholder istituzionali che articolano il campo del welfare e della cultura - istituzioni pubbliche, aziende speciali, fondazioni, imprese sociali e for profit, enti nonprofit - non solo per finalità di coordinamento dell’esistente e di implementazione di misure di sostegno, ma aprendosi a contributi emergenti di innovazione sociale.
La possibilità di operare in senso trasversale a politiche e modelli di intervento è legata infatti alla sperimentazione e messa a regime di nuovi schemi di relazione tra soggetti diversi in modo da intercettare sperimentazioni elaborate in contesti “periferici” che si sono dimostrate in grado di riconoscere nuove problematicità e di proporre soluzioni attraendo e ricombinando risorse di diversa natura.
Ciò significa ridisegnare i servizi e gli spazi per fare in modo che il welfare culturale diventi parte integrante dell’offerta, ad esempio nel modo in cui vengono progettati, allestiti e gestiti spazi per la socializzazione giovanile, strutture di cura e di assistenza, ecc.
La produzione culturale e la protezione sociale rappresentano, da questo punto di vista, importanti vettori di trasformazione che insistono non solo sulle procedure di servizio e sulle modalità di programmazione delle politiche, ma riguardano anche la modificazione delle percezioni sociali attraverso le quali si attribuisce carattere meritorio e, in senso lato, di “interesse pubblico” rispetto a determinati temi e problemi.
In questo senso una politica di welfare culturale dovrebbe essere gestita, più che attraverso un “tavolo” di confronto e concertazione, come un luogo attrezzato con risorse e competenze per favorire un dialogo orientato al co-design di soluzioni: una impostazione particolarmente visibile in tutte quelle strutture polivalenti e multiservizio che scaturiscono da processi di rigenerazione e riuso di beni e spazi pubblici (case del quartiere, immobili confiscati, ecc.).
Contesti nei quali gli elementi di interesse comune scaturiscono spesso da un confronto dialogico (e, se serve, conflittuale) tra professionisti dell’arte e della cultura e professionisti ed esperti della sanità e dell’assistenza sociale, a patto di assumere una prospettiva orientata a superare le ritualità della governance e le procedure standard di progettazione.
Per ultimo, ma non ultimo, il tema delle risorse che, come ricorda un altro appunto di ricerca firmato in questo caso da Bertram Niessen - uno dei più rilevanti esponenti della recente ondata di innovazione culturale - non deve risolversi in un trade-off che vede da una parte un aumento di copertura ed efficacia del welfare attraverso la produzione culturale e dall’altra, un utilizzo della cultura come espediente per ridurre i costi della protezione sociale.
La cultura è, o dovrebbe essere, oggetto di investimento rispetto al quale attendersi la generazione di ritorni sia in termini di efficacia che di sostenibilità. In tal senso un importante capitolo di policy per il welfare culturale è legato alla necessità di destinare risorse dedicate al rafforzamento di competenze specialistiche e non semplicemente a copertura di costi di funzionamento ordinario di servizi sociali parzialmente riconvertiti in chiave culturale.
La disponibilità di risorse e competenze dedicate è però legata alla capacità di superare i limiti derivanti da una dimensione sperimentale e residuale che porta, ad esempio, i soggetti del welfare sociale a improvvisarsi nel campo della produzione culturale (e viceversa), investendo invece in competenze di ricerca, di service design e di valutazione.
In altri termini si tratta di consolidare un nuovo campo di protezione sociale legittimandolo, sia fra gli stakeholder primari (utenti e operatori) sia presso apportatori di risorse consolidati ed emergenti.
Un welfare culturale affermato nei modelli di servizio e riconosciuto per la sua efficacia può essere finanziato attraverso varie leve: la riallocazione delle risorse redistribuite dalla Pubblica Amministrazione, la concentrazione di risorse filantropiche e di finanza che misurano la loro efficacia guardando all’impatto economico e sociale di modelli di servizio ispirati al paradigma del welfare culturale e non ultimo l’impiego di risorse derivanti da donazioni e scambi di mercato generate dai diversi pubblici che alimentano in modo sempre più consistente i consumi culturali.