Torneranno gli innocenti
tutti pieni di compassione
per gli errori dei potenti
fatti senza esitazione

(Negramaro, Fino all’imbrunire)

Ha scritto Silvia Giacomoni che «il carcere è per castigare certi gesti, ma poi punisce parti che la persona forse non sapeva di avere, parti innocenti che magari si scoprono solo quando vengono ammutolite a forza, e recise». (Scopri di più su: Generatività.it)
Dal tema della pena arriva un grido muto, inascoltato o che forse non vogliamo ascoltare, inusuale o che forse non riteniamo giusto ascoltare. Una pro-vocazione, senza dubbio, che però ci riconduce alla portata integrale di un interrogativo che diventa radicale se coinvolge persino chi pensiamo ne debba essere immune, e che le parole folgoranti di Simone Weil dicono così: «Perché mi viene fatto del male? è il grido silenzioso che risuona nel segreto del cuore degli sventurati e sgorga da un contatto col dolore». Siamo al cospetto di un appello per la politica, l’appello per antonomasia – verrebbe da dire – a cui la politica non può sottrarsi. L’appello al silenzio e all’attenzione, non solo per ascoltare ma persino per fornire i mezzi espressivi a quel grido di dolore il più delle volte chiuso in un gemito sordo e interrotto. Servono persone nelle posizioni di comando, scrive Weil, capaci e desiderose di udirlo e comprenderlo quel grido.

Ecco. E se fosse questa la strada per riavvicinare potere e politica? Secondo Bauman infatti la sfida fondamentale del nostro secolo è «rimettere insieme potere e politica; e il compito che probabilmente dominerà l’agenda del secolo sarà la ricerca di un modo per realizzare tale obiettivo». Per farlo forse dobbiamo forse smetterla di occuparci del potere come “calcolo” del mero contenimento di sue possibili degenerazioni o del continuo potenziamento di sue auspicabili diramazioni. E quindi occorre liberare il potere dall’immagine pubblica alla quale pare consegnato: un esercizio di incremento di potere che finisce nelle mani dei “peggiori” o dei “più realisti del re” perché i “migliori”, o comunque quanti sono mossi da alti ideali, spesso lo rifiutano, pur di non “sporcarsi le mani”; qualcosa di certamente indispensabile ma di altamente pericoloso; una superiorità arrogante, più o meno riconosciuta, che tende a mettere tutto sotto la propria ombra, in un “gioco sporco” a cui pare “condannato”.

Lungi da me finire nella posizione ingenua di chi rigetta quanto mura macchiate dal sangue fraterno siano all’origine di alcuni grandi miti fondativi di civiltà e di città (non solo dell’Occidente); e lungi da me negare che il potere s’inserisca tra le sofferenze inflitte dalle persone alle persone: sofferenze inevitabili o sofferenze comunque necessarie alla costruzione di una convivenza? Come la teologia ha dovuto misurarsi sulla sfida millenaria e già biblica del “giusto sofferente”, così la riflessione filosofico-politica ha dovuto da sempre fare i conti con il “fratricidio”, con il grido del giusto, ma in fondo anche con il grido del colpevole che dà voce al paradosso della politica, e cioè il suo connubio con la sofferenza. Ma come ha scritto Ricoeur «la storia della sofferenza non forma essa stessa un sistema […]: solo la storia del dominio, apparentemente, fa sistema». E noi siamo figli di una storia del dominio, della sua fondazione e del suo potenziamento.

Ecco il punto. Siamo nel momento in cui questa storia del dominio si può interrompere? Perché forse Caino è diventato costruttore di città quando è stato messo in condizione di libertà a motivo del fatto che qualcuno ha ascoltato il grido senza voce della sua sofferenza. Proprio il patire può allora diventare un nuovo punto di partenza.

Prima di tutto perché il potere è primariamente un’azione e una capacità che “si fa” sia sul terreno antropologico (ciò che ognuno può permettersi di fare, in quanto capace), sia su quello politico (ciò che qualcuno ha il diritto di fare, in quanto legittimato), rivelando così un punto di contatto che forse troppo è stato trascurato o sottovalutato, concentrati, come siamo stati, esclusivamente sul buon funzionamento delle dinamiche dei due rispettivi e separati ambiti, come se una certa visione della convivenza e dello stare insieme non richiedesse una certa visione dell’umano e viceversa. Tornare a investigare tale vicinanza – che è il senso del fare con e per gli altri, in relazione a ciò che posso e non posso fare – significa rilevare e approfondire la pertinenza antropologica della politica.

E in seconda istanza, soprattutto, perché il potere non si comprende esclusivamente a partire dal binomio “comando-obbedienza” e in nome del suo potenziamento; rivela bensì un volto di sé decisivo a partire dalla polarità “potere-patire”. La parola chiave che ci dice lo “stato di salute” del potere nel cambiamento d’epoca che viviamo sembra essere “potenziare”, mentre per aiutarci a pensarlo altrimenti dovrebbe essere “patire”. Il “patire” non è, infatti, soltanto la chiave di accesso per guardare al potere come una massiccia e necessaria inflizione di patimento per “motivi di causa maggiore”; il “patire” è piuttosto e più complessivamente l’esperienza a partire dalla quale domandarci davvero se si possa pensare il potere oltre il suo potenziamento.

Solo un potere costantemente provocato da ciò che sfugge alla propria protervia razionalistica di costruzione di un ordine neutro, a disposizione della generalità di tutti gli uomini e della loro volontà di illimitata libertà, è in grado di scoprirsi davvero responsabile persino nei confronti dei poteri individuali, in quanto responsabile al cospetto di un patire. Ciò vuol dire, allora, per il potere politico, interrogarsi sulle conseguenze non più trascurabili della finitezza inviolabile della persona e della sua costituiva tensione alla felicità, che non coincide con la preferenza esclusiva del proprio io. E tali questioni conducono a rivedere la centralità del legame tra potere umano e potere politico, radicato in quello “spazio” tipicamente umano che è lo spazio del “tra”: tra il “subíto” e il “voluto”. Come esseri umani siamo una “terra di mezzo” tra particolarità e totalità, tra soddisfazione e aspirazione, tra intenzione e realizzazione. Siamo una polarità vivente di “voluto” e “subíto”, che ci rende affermazione ma al tempo stesso negazione, o meglio accettazione di una impossibile assolutizzazione.

La pertinenza antropologica della politica ha la sua radice esattamente qui, e cioè nell’atto continuo di mediare, da parte dell’essere umano, tra il “subíto” e il “voluto” rispetto al suo essere al mondo, ma anche riguardo alla costruzione delle forme di convivenza che diano senso al suo esistere. Sta qui, d’altro canto, la radice stessa della socialità umana e quindi della configurazione del suo rapporto con l’alterità: la naturale socievolezza non coincide con una naturale convivenza, bensì con l’accettazione di questo luogo intermedio, che si è chiamati ad abitare da intermediari, tra ciò che si può solo “subire” e ciò che propriamente “si vuole”. Questo luogo di mezzo, questo “tra” specificatamente umano, dove grammatica antropologica e grammatica politica s’incontrano, diventa allora il pungolo per ripensare il paradigma – fino ad oggi dominante – del potere e considerare come possibile un’idea “altra” di potere: forse nel tempo della fine del potere e dell’affermazione della pura potenza una delle urgenze più forti che avvertiamo.

Se il modo in cui pensiamo il potere ci dice del modo in cui pensiamo l’umano e l’umano in società, allora il tentativo di intravedere nel “patire” un appello per il potere inevitabilmente porta con sé un cambiamento sostanziale: non solo nei “modi” del potere, ma persino nelle sue “ragioni”, riaprendo anche la questione del suo fondamento. Ripensare il potere significa, dunque, ripensare ciò che pensiamo di potere e riconsegnare il potere tutt’altro che alla sua esclusiva padronanza di sé.

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