Tutto in meno di dieci anni. L’articolo (a firma Satoshi Nakamoto) in cui per la prima volta si parla di blockchain è dell’ottobre del 2008. Il bitcoin nasce all’inizio dell’anno successivo. A fine 2017 è sulle prime pagine di tutti i giornali tra chi esalta la possibilità di guadagni favolosi e chi avverte dell’imminente scoppio di una bolla. Se quelle finanziaria e mediatica sono però sotto gli occhi di tutti, un’altra bolla è molto meno nota ma decisamente più preoccupante: quella energetica. (Scopri di più su:
NonConIMieiSoldi.org)
Per capire perché, occorre partire da alcune informazioni – ovviamente semplificate – su come funzionano i bitcoin. L’articolo del 2008 era il primo a risolvere il problema del doppio pagamento. Nel pensare una valuta elettronica, non emessa da una banca centrale (o altra autorità riconosciuta), bisogna domandarsi tra le altre cose come controllare la quantità di moneta in circolazione e come evitare truffe, e in particolare il problema dei doppi pagamenti. Se ho un certo ammontare di bitcoin e non esiste un’autorità centrale che controlla le singole operazioni (come fa la banca con i bonifici o il circuito delle carte di credito che sto usando), chi mi impedisce di usare i miei soldi per comprare una bicicletta su un sito e nello stesso momento un biglietto aereo su un altro?
La soluzione adottata è stata la blockchain. Una sorta di registro pubblico in cui viene riportata ogni transazione mai avvenuta. Ogni nuova transazione viene aggiunta, come un nuovo anello, a una catena che contiene le informazioni su tutte le operazioni realizzate in passato. Ogni utilizzatore di bitcoin ha sul proprio computer l’intera catena, o blockchain, ed è quindi impossibile falsificarla. Può vedere tutte le transazioni realizzate nella storia dei bitcoin, ma non può risalire a chi le ha effettuate. Ogni nuovo pagamento o altra operazione in bitcoin viene validato da un utente, e si crea un nuovo anello o “blocco” nella catena. In realtà il sistema è più complesso, con continue biforcazioni nella catena e successive selezioni della catena più lunga che diventa l’unica a cui si attaccheranno ulteriori blocchi in futuro.
La cosa importante è che il funzionamento complessivo richiede che gli utenti mettano a disposizione almeno in parte il proprio computer per la gestione della blockchain e per validare le operazioni. Perché farlo? La risposta è che il lavoro per fare funzionare il sistema viene remunerato, accreditando agli utenti nuovi bitcoin. Questo è anzi l’unico sistema tramite il quale nuovi bitcoin vengono immessi nel sistema. È l’attività di mining (estrazione da una miniera).
In pratica gli utenti fanno a gara per risolvere un problema matematico. Il computer che trova la soluzione, valida un blocco della catena e viene premiato con un certo ammontare di bitcoin. È la cosiddetta proof of work o prova che un utente sta davvero mettendo a disposizione il proprio computer. Semplificando, è come se il sistema chiedesse ai computer degli utenti di trovare il numero del biglietto vincente di una lotteria. L’unico modo per farlo è procedere per tentativi. Più a lungo si partecipa, maggiori sono le possibilità di vincere. In questo modo i computer che dedicano più potenza di calcolo al processo hanno maggiori possibilità di trovare la soluzione e di vedersi accreditare i bitcoin corrispondenti.
Più potenza di calcolo significa però maggiore consumo di elettricità. Se il valore del bitcoin cresce, da un lato un maggiore consumo diventa accettabile, dall’altro sempre più persone si avvicineranno e proveranno a guadagnare. Quando alla bolla finanziaria si associa quella mediatica, sempre più persone si lanciano, provando a estrarre bitcoin. Diventa allora più difficile guadagnare dal mining, e quindi serve più potenza di calcolo e più consumi. Ma in parallelo più persone che vogliono bitcoin significa aumento della domanda e quindi della quotazione del bitcoin, il che rende conveniente continuare comunque a fare mining, il che attira altre persone, il che fa crescere il valore del bitcoin, e la spirale si auto-alimenta.
Non solo. Il sistema è costruito in modo che si arrivi a un tetto massimo di 21 milioni di bitcoin, che non potrà mai essere superato. Il problema da risolvere è tarato per trovare una soluzione – con creazione di nuovi bitcoin – ogni dieci minuti circa. Se mediamente il tempo impiegato è minore il problema viene reso più difficile, in caso contrario più semplice. Il premio in bitcoin viene però dimezzato ogni quattro anni (attualmente vengono immessi 12,5 bitcoin ogni 10 minuti, dal 2020 saranno la metà). Con il passare del tempo e se cresce l’utilizzo e la domanda, quindi, “naturalmente” i bitcoin diventeranno più scarsi e di
maggiore valore, giustificando – almeno dal punto di vista economico – consumi sempre maggiori per il mining.
Non sono considerazioni teoriche. Il consumo di elettricità è il problema principale per chi vuole guadagnare con il mining. Società specializzate sono nate unicamente con questo scopo, piazzandosi ad esempio vicino a dighe sottoutilizzate e in Paesi in cui l’elettricità costa poco. Il mondo asiatico, Cina in testa, domina oggi tale attività. Un reportage di pochi mesi fa mostrava un’incredibile “miniera di bitcoin” nella provincia del Sichuan, con centinaia di computer continuamente in funzione per estrarne di nuovi.
Secondo una recente inchiesta, il consumo di elettricità del bitcoin nel 2017 è pari a quello della Tunisia. Se il trend degli ultimi anni non dovesse rallentare, nel 2018 potrebbe essere pari a quello dell’Austria, nel 2021 consumerebbe la stessa elettricità degli USA, nel 2023 un quantitativo di elettricità superiore a quella dell’intero pianeta.
La comunità informatica sta cercando di trovare delle soluzioni e delle possibili alternative. Alcune criptovalute stanno ragionando su come sostituire l’impiego crescente di potenza di calcolo (proof of work) con altri sistemi meno energivori. Questo è però solo uno dei problemi. Un sistema nato per opporsi all’idea di un controllo centralizzato sull’emissione di valuta non può non interrogarsi sul rischio che pochi grandi attori, con la possibilità di sfruttare enormi potenze di calcolo ed energia a basso costo, possano monopolizzare l’attività di mining. Cosi come è necessario domandarsi se l’anonimato non rende tali strumenti ideali per attività illecite, dai traffici della criminalità organizzata al riciclaggio alla corruzione.
Ancora, proprio in questi giorni negli Usa è stato lanciato il primo derivato sui bitcoin, un future quotato alla Chicago Board Options Exchange. I primi scambi hanno mostrato una volatilità 100 volte superiore a quella dei derivati sugli indici di Borsa. Un’estrema volatilità dovuta non solo a persone che comprano e vendono monete elettroniche, ma anche – e forse soprattutto – ai Bot (trader automatizzati che comprano e vendono in brevissimo tempo per guadagnare su piccole oscillazioni dei prezzi). Sembra ormai assodato che tali programmi riescano a manipolare il valore delle criptovalute. Ora immaginate quale possa essere il livello di speculazione tra operatori automatici, derivati e bolle finanziarie e mediatiche. Potrebbe iniziare a girarvi la testa, ma non avete ancora il quadro completo, perché oggi si parla di ETF sui future sui bitcoin: un derivato su un derivato su una criptovaluta, quindi in un mercato senza alcun controllo o regolamentazione, che si trova in mezzo a una gigantesca bolla speculativa, dove una percentuale ignota di operazioni è eseguita da computer che manipolano i prezzi.
Per strumenti nati dall’idea di emanciparsi da fallimenti e storture delle monete tradizionali, il livello di finanziarizzazione e di speculazione raggiunto in pochissimi anni è a dire poco preoccupante. Se alcuni problemi possono interessare unicamente gli utilizzatori, altri, e in primo luogo il consumo di elettricità e l’impatto ambientale, riguardano invece tutti noi. Tra bolla finanziaria, energetica e mediatica, parliamo di sfide cruciali che il bitcoin e le criptovalute in generale dovranno dimostrare di sapere affrontare, se vogliono sopravvivere al loro stesso successo.