In questo tempo di nuove e grandi migrazioni, dobbiamo imparare, tutti, a leggere questi fenomeni con le categorie giuste e poi agire di conseguenza. (Scopri di più su: EdC-online.org)
In questo tempo di nuove e grandi migrazioni, dobbiamo imparare, tutti, a leggere questi fenomeni con le categorie giuste e poi agire di conseguenza. In genere, le persone ben disposte verso il grande valore dell’accoglienza, si fermano troppo presto e in superficie. Si fa riferimento, ad esempio, all’esperienza di migranti dei nostri nonni in Europa o in America, e si dice: dobbiamo essere accoglienti con i migranti perché in un passato recente siamo stati migranti anche noi. Si cita, poi, l’accoglienza del forestiero come un principio di tutte le grandi civiltà del passato, scritto nei libri sacri delle religioni. L’ospite è sacro, va accolto e onorato.

Polifemo è condannato dalla cultura mitica greca perché invece di accogliere i suoi ospiti li divora. Nella Bibbia Abramo e Sarah accolgono i tre uomini nelle querce di Manre, questi gli annunciano l’arrivo di Isacco, figlio della promessa. Quei tre uomini, poi, continuano il viaggio e arrivano a Sodoma, dove invece dell’accoglienza trovano la morte, e per questo quella città diventa maledetta. E nella lettera agli Ebrei, un culmine del Nuovo testamento, troviamo una delle frasi più belle: «Siate accoglienti con gli ospiti, alcuni hanno accolto degli angeli senza saperlo».

Altre volte, poi, si attivano i registri della compassione e della pietas umana, e il nostro cuore è colpito e commosso dalle scene di sofferenza che circondano molte esperienze di migranti. Valori, principi e sentimenti nobili e buoni, che però non sono sufficienti per creare una cultura condivisa e sostenibile dell’accoglienza. Le emozioni, il ricordo, l’invocare antichi principi, sono troppo fragili, e manipolabili dalla pubblica opinione, oggi più che mai aggressiva, ideologica, e miope. Cosa manca allora alla nostra narrativa delle migrazioni? Il grande principio di reciprocità e del mutuo vantaggio.

Quando i nostri nonni giunsero in America o in Belgio, arricchirono quei Paesi e, al tempo stesso, fecero migliori sé stessi e le loro famiglie. Non c’erano grandi associazioni di accoglienza, ma quei migranti operarono autentici miracoli civili ed economici semplicemente lavorando, facendo imprese, cooperando con la gente del luogo per un mutuo vantaggio. Senza vedere le persone che giungono da noi come potenziali partner di lavoro e di vita civile, i sentimenti, seppur buoni, non producono un legame abbastanza robusto per reggere di fronte alle inevitabili difficoltà di ogni accoglienza vera. Perché la corda della reciprocità e del mutuo vantaggio, oltre ad essere più dignitosa e rispettosa per tutti, è molto più forte delle corde dei sentimenti, dei ricordi e dell’emotività. Non dovremmo sentirci generosi o più buoni di chi accogliamo, dovremmo solo leggere nel volto dell’altro i segni di un alleato che può aiutare anche noi. Tra l’altro, il principio di accoglienza delle società passate era basato anche sulla razionalità e sull’interesse di lungo periodo: in società ancora in parte nobili e migranti, tutti potevano trovarsi nella condizioni di migrante, e quindi porre la legge di accoglienza del forestiero a pietra angolare “conveniva” a tutti: all’altro, a noi, ai suoi figli, ai nostri figli. La cooperazione, poi, porta frutti se le persone che cooperano sono diverse: senza biodiversità la cooperazione civile e commerciale è piccola. In un mondo di persone troppo simili il mercato serve poco.

Nella Bibbia, poi, troviamo anche parole importanti rivolte alle comunità migranti, che si trovano a vivere in un altro Paese. Il profeta Geremia scrisse una splendida lettera ai deportati in Babilonia. Il contesto era molto diverso, ma le sue parole sembrano scritte anche per i migranti che arrivano in un altro Paese. Scriveva: «Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie… Lì moltiplicatevi e non diminuite» (29, 1-6).

Parole che ci lasciano ancora tramortiti per la loro forza e bellezza. Edificare case.

Sposarsi, fare figli, piantare orti. Quindi amare e lavorare. Nelle migrazioni, la paura del presente e del futuro e il dolore del passato iniziavano a svanire non appena cominciavano a lavorare. Lavorando fiorisce quella solidarietà-fraternità vera tra lavoratori parlanti lingue diverse, che però possono parlare tra di loro con le mani e con le lacrime e il sudore del lavoro.

L’amicizia con i nuovi immigrati può nascere e rinascere se e dove riusciamo a lavorare insieme.

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