Da sempre al centro della nostra riflessione sulla sussidiarietà ci sono i cittadini attivi ed i beni comuni, perché quando la Costituzione afferma che i soggetti pubblici devono favorire “le autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale” (art. 118, ultimo comma) noi interpretiamo tale disposizione nel senso che, fra le attività di interesse generale, rientra anche il prendersi cura dei beni comuni. (Scopri di più su: Labsus.org)
Finora dunque ci siamo occupati soprattutto dei soggetti e degli oggetti della sussidiarietà. E’ giunto ora il momento di occuparci più approfonditamente della relazione di cura che si instaura fra i cittadini attivi ed i beni comuni sviluppando le illuminanti riflessioni contenute in un bel libro di Annalisa Marinelli intitolato La città della cura, che propone di far uscire la cura dalla dimensione unicamente domestica e privata in cui è stata finora relegata per riconoscerle invece un ruolo come nuovo paradigma culturale, su cui fondare una “società della cura”.


C’è voglia di prendersi cura dei beni comuni

Che una simile prospettiva sia possibile lo dimostra la nostra esperienza, soprattutto in questi ultimi anni, dalla presentazione a Bologna nel febbraio 2014 ad oggi del Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni. Il successo che ha avuto questo strumento sembra dimostrare che esiste in Italia una voglia, forse anche un bisogno, di riappropriarsi degli spazi pubblici, non per privatizzarli, bensì per migliorarne la qualità a vantaggio sia proprio, sia di tutti gli altri abitanti.

Per migliorare la qualità dei beni comuni bisogna prendersene cura. E questo comporta far uscire l’attività di cura, in generale, dallo stretto ambito familiare per farla diventare un’attività collettiva e condivisa. Collettiva perché svolta insieme con altri, condivisa perché i cittadini attivi non si limitano a collaborare bensì con-dividono fra di loro e con l’amministrazione risorse e responsabilità per la cura di beni per definizione condivisi, i beni comuni.


La cura nello spazio pubblico acquista un valore politico

La cura di solito viene considerata come un’attività prettamente familiare, da svolgersi prevalentemente nello spazio privato, i cui effetti benefici si esauriscono nell’ambito domestico. La nostra esperienza invece dimostra innanzitutto che essa può essere svolta anche nello spazio pubblico, anzi, che può acquistare un valore politico diventando uno dei modi con cui cittadini sempre più lontani dalla politica e dalle istituzioni riempiono e fanno vivere lo spazio pubblico, grazie ad attività di cura dei beni di tutti svolte con la stessa attenzione e la stessa passione con cui normalmente ci si prende cura dei beni propri.


Senza l’attività di cura delle persone e del territorio il sistema non regge

Se poi si allarga la prospettiva ci si accorge, come nota Marinelli, che il “sostegno al gesto piccolo, di basso impatto, locale, riproducibile, legato ai cicli del vivente” ha un ruolo i cui effetti vanno molto al di là dello stretto ambito dello spazio pubblico locale. Quella che noi chiamiamo cura condivisa dei beni comuni “concorre infatti a mantenere in equilibrio (garantendone la sopravvivenza) il sistema più grande, complesso, globale e pertanto, nel governo della cura, saranno sostenute le economie che lavorano in questa direzione. Il lavoro di cura locale sul territorio, la sua manutenzione, è la precondizione per la sopravvivenza dell’intero sistema economico, sociale e politico costruito dalla civiltà umana; così come il quotidiano lavoro di cura sugli individui (quello non retribuito e invisibile ai parametri economici) mette in condizione di effettuare il lavoro retribuito (quello che concorre al PIL) e possiede un valore altissimo e ineliminabile di precondizione al sistema economico. Sostenere la sopravvivenza ed efficacia del lavoro di cura significa fornire risorse in termini di soldi, tempo e servizi.

Occorre cioè reinserire tra i parametri economici correnti, il valore che la gratuità del gesto di cura possiede all’interno della struttura economica della società, gratuità che è sciaguratamente scambiata per assenza di valore economico: “la cura è l’anello mancante nella scala dei valori economici e politici della nostra organizzazione umana e questo non fa tornare mai i conti” (p. 128 ss.).


Cura, non manutenzione!

Nella prospettiva di Labsus è molto stimolante questo parallelismo fra il lavoro di cura locale sul territorio (quello che noi chiamiamo cura dei beni comuni) e il quotidiano lavoro di cura sugli individui, così come lo è il parallelismo fra gli effetti non percepiti sia del lavoro di cura dei beni comuni, sia di quello di cura delle persone nella cerchia familiare.

Il primo, il parallelismo fra la cura dei beni comuni e quella delle persone, è confermato da ciò che vediamo girando l’Italia. Gli abitanti dei quartieri cittadini, così come quelli dei borghi, non si limitano a “fare la manutenzione” dei beni comuni, bensì “se ne prendono cura”, che è un’altra cosa. Manutenzione è un termine che fa venire in mente attività di tipo tecnico, come la manutenzione di una motocicletta, mentre cura è un termine che fa venire in mente sentimenti come empatia, premura, partecipazione, sollecitudine, delicatezza. Ma anche preoccupazione e inquietudine per le sorti della persona o dell’oggetto di cui si ha cura, perché alla base della cura c’è sempre un’assunzione di responsabilità. E infatti il contrario della cura è l’indifferenza.


Non è normale, ma accade

Nell’ambito privato è normale che ci si prenda cura di qualcuno la cui esistenza ha importanza per noi… un bambino, un familiare, una persona amata. Nell’ambito pubblico, non è affatto normale (almeno, non in Italia…) che ci si prenda cura dei beni di tutti con la stessa sollecitudine, premura e attenzione con cui ci si prende cura dei propri beni. Eppure da alcuni anni ciò accade, su una scala e con un ritmo di incremento tale da far pensare che in effetti sia possibile costruire intorno al tema della cura condivisa dei beni comuni una vera e propria “società della cura”.


Valorizzare la cura è diventata una priorità

Il secondo parallelismo, quello fra gli effetti non percepiti del lavoro di cura delle persone e di quello di cura dei beni comuni è altrettanto interessante.

Perché è sicuramente vero che, come nota Marinelli, il lavoro di cura è stato mantenuto finora in “una sfera non-politica, domestica, privata”. Ora si tratta finalmente di “comprendere che la valorizzazione politica ed economica della cura intesa come quell’insieme di attività che rimette al mondo il mondo, dai corpi fino all’ambiente circostante, è diventata una priorità non solo per la sopravvivenza della vita, ma anche dello standard economico al quale siamo abituati” (p. 58).


I beni comuni sono al tempo stesso locali e globali

Come ben sappiamo, anche il prezioso lavoro di cura di piazze, strade, giardini, scuole, beni culturali, etc. svolto dai cittadini attivi viene spesso relegato nella sfera della mera supplenza nei confronti di amministrazioni locali inefficienti o prive di risorse, svuotandolo di dignità e di valore, esattamente come accade per il lavoro di cura in ambito domestico. Noi diciamo invece da sempre che la cura condivisa dei beni comuni va considerata come orgogliosa espressione di cittadinanza, di sovranità e di assunzione di responsabilità verso il Paese. E che essendo i beni comuni di cui si prendono cura i cittadini attivi al tempo stesso beni locali e globali, anche l’effetto dell’intervento dei cittadini non è mai circoscritto solo allo spazio pubblico locale (così come quello delle attività di cura delle persone non è mai circoscritto solo all’ambito domestico) ma si riverbera in misura maggiore o minore, senza che essi ne siano consapevoli, sulla città, la regione, la nazione, l’Europa, il pianeta.


Il valore aggiunto comunitario, ma non solo

Nella prospettiva indicata da Marinelli, tuttavia, si può andare ancora oltre e vedere che gli effetti della cura condivisa dei beni comuni vanno molto al di là di quelli immediatamente percepibili.

Non soltanto, come diciamo da tempo, c’è tutto il valore aggiunto invisibile ma preziosissimo consistente nella ricostruzione e nel rafforzamento dei legami di comunità, nella creazione di capitale sociale, di integrazione, coesione, senso di appartenenza. Prendersi cura dei beni comuni del proprio quartiere insieme con i vicini e gli amici aiuta le persone ad uscire dalla solitudine, a sentirsi parte di una comunità, a valorizzare le competenze nascoste. Nel caso delle persone in difficoltà, partecipare alla cura dei beni comuni insieme con gli altri abitanti del quartiere è un modo per restituire loro identità e dignità, mostrando con i fatti che anche queste persone, come tutti, sono portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità.


L’effetto “creativo” della cura condivisa dei beni comuni

Ma poi c’è anche un altro effetto, che potremmo definire “creativo”, prodotto dalla cura dei beni comuni, perché “la rivoluzione non si addice alla cura che invece percorre la strada della trasformazione. Una trasformazione attuata con quello che c’è, con la creatività, poco alla volta, dettaglio dopo dettaglio, correggendo il tiro con pragmatismo ma senza mai perdere di vista il senso del percorso. La città della cura non smette mai di costruirsi, di trasformarsi, la complessità e la pluralità dei bisogni aggiornando di continuo gli stimoli e le istanze. La cura quotidiana non è altro che manutenzione della vita: ripetendo quotidianamente gli stessi gesti, produce una crescita progressiva, accompagna la trasformazione. Similmente la cura della città opera attraverso la manutenzione ordinaria un continuo ridisegno e adattamento alle istanze plurali della vulnerabilità” (p. 130).


Francesco ed i gesti concreti degli “artigiani del bene comune”

I cittadini attivi non soltanto, come s’è detto, non si limitano a “manutenere” l’esistente, ma con il loro stesso intervento trasformano, migliorano, sviluppano ciò che già c’è adattandolo sempre meglio alle loro esigenze. C’è un effetto creativo, trasformativo nella cura dei beni comuni che non sempre si percepisce, ma è fondamentale per la qualità della vita nella città.

I gesti dei cittadini attivi quando si prendono cura dei beni comuni sono “piccoli, di basso impatto, locali, riproducibili, legati ai cicli del vivente” (p. 128). Sono i gesti di coloro che Francesco, la mattina del 1° gennaio 2018, in San Pietro, ha definito gli “artigiani del bene comune”, persone “che ogni giorno cercano di contribuire con piccoli gesti concreti al bene di Roma … che amano la loro città non a parole ma con i fatti”.


La “società della cura”, intessuta di relazioni

In conclusione, sulla base di quanto s’è detto finora, è possibile costruire intorno alla pratica quotidiana della cura, sia quella delle persone, sia quella dei beni comuni, un nuovo modello di vita nella città, addirittura un nuovo modello di società, la “società della cura”.

Una società tutta intessuta di relazioni perché la cura, dice Marinelli, è “l’espressione qualitativamente più alta della relazione” (p. 38). Lo è nello spazio privato, in cui finora la cura è stata relegata, ma lo è anche nello spazio pubblico, dove l’attività di cura si esercita nei confronti non delle persone ma dei beni comuni.

Anzi, mentre per l’attività di cura delle persone nello spazio privato purtroppo non sembrano esserci disposizioni costituzionali che la proteggano e ne riconoscano il valore strategico, nello spazio pubblico la relazione di cura che si instaura fra cittadini e beni comuni non soltanto è legittimata addirittura da un principio costituzionale, quello di sussidiarietà, ma a sua volta essa è essenziale per consentirne la realizzazione.

Se non ci fosse l’attività di cura condivisa dei beni comuni il principio di sussidiarietà rimarrebbe infatti inapplicato, ma d’altro canto se nel nostro ordinamento non ci fosse questo principio i cittadini attivi non potrebbero prendersi cura dei beni di tutti come se fossero i propri.

La sussidiarietà, peraltro, è essa stessa un principio eminentemente relazionale, che si realizza solo se si crea una relazione, un rapporto fra due o più soggetti. Ma non una relazione qualsiasi, perché l’essenza della sussidiarietà, ciò che rende veramente unico questo concetto, è la creazione di una relazione di condivisione fondata sull’aiuto.


Una proposta

In conclusione, la relazione di cura nello spazio pubblico è legittimata dalla Costituzione grazie ad un principio che a sua volta si realizza solo se c’è una relazione fra due o più soggetti e fra questi soggetti ed i beni comuni. Le relazioni per la cura dei beni comuni sono di interesse generale e quindi legittimate e protette dalla Costituzione.

Ma come si è visto sopra anche le relazioni di cura delle persone nello spazio privato hanno importanza sistemica, sono cioè di interesse generale. A questo punto, nella prospettiva della creazione di una vera e propria “società della cura” perché non riportare anche queste attività nell’ambito dell’art. 118, ultimo comma della Costituzione? Perché, in altri termini, non far rientrare anche la cura delle persone nell’ambito familiare fra quelle “autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale” che secondo la Costituzione la Repubblica deve favorire? In questo modo la cura delle persone e quella dei beni comuni avrebbero la medesima legittimazione costituzionale, rafforzandosi a vicenda e rafforzando la realizzazione del principio di sussidiarietà.

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