Eppure cresce la soddisfazione per la propria vita, molto buona per il 41% degli italiani. L’Istat aggiorna il rapporto sul Bes: il reddito cresce per pochi, mentre la «povertà assoluta coinvolge soprattutto le giovani generazioni». Quelle più istruite e attente al paesaggio. (Scopri di più su:
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L’Istat ha presentato venerdì
la quinta edizione del rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes), ovvero quell’indice complesso – 129 gli indicatori analizzati, articolati su 12 domini che vanno dalla salute al lavoro, dalle relazioni sociali al paesaggio al benessere soggettivo – che ha l’ambizione di fornire una misura del progresso (o del regresso) nazionale in modo più profondo rispetto a un indicatore come il solo Pil.
Il rapporto si presenta annunciando che il «2016 è stato l’anno della definitiva uscita del Paese da una crisi profonda e prolungata», ma sfogliando le oltre 200 pagine del documento non è questa l’impressione che se ne ricava, tanto che anche l’Istat subito sottolinea che la diffusione del benessere «non ha interessato in maniera omogenea tutte le fasce della popolazione e tutti i territori». Anzi, è proprio la crescita della disuguaglianza il tratto distintivo di questa “uscita dalla crisi” made in Italy.
Nel 2016, in Italia, il reddito lordo disponibile pro capite delle famiglie consumatrici è pari a 18.191 euro, in aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente, dopo la crescita già registrata tra 2014 e 2015. Nello stesso periodo però l’aumento del reddito si è «associato a un aumento della disuguaglianza», e a sua volta la crescita della disuguaglianza «ha determinato anche un aumento del rischio di povertà». Tanto che la quota di popolazione a rischio di povertà è passata dal 19,9% (reddito 2014) al 20,6% (reddito 2015), mentre la nel 2016 la grave deprivazione materiale raggiunge il 12,1% degli italiani (era 11,5% nel 2015). Una performance che piazza l’Italia abbondantemente al di sotto della media Ue in tutti i campi: il nostro Paese risulta infatti al 21° posto (su 27) tra i paesi europei per la disuguaglianza tra i redditi, al 19° per il rischio di povertà, al 19° per la grave deprivazione materiale e al 23° posto per la molto bassa intensità lavorativa.
In particolare, il disagio economico che caratterizza l’Italia – «come noto», spiega l’Istat – è «fortemente legato alla difficoltà di entrare e permanere nel mercato del lavoro». E a patirne più di tutti le conseguenze sono i giovani, ovvero coloro che invece dovrebbero traghettare il Paese verso il futuro.
«L’aumento degli individui in famiglie che presentano un’intensità lavorativa molto bassa – sottolinea difatti l’Istat – interessa quasi esclusivamente i giovani, ed è legato alla loro difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro oppure all’impossibilità di lavorare a pieno regime; si tratta in particolare di giovani soli o in coppia (in alcuni casi con figli minori) già usciti dalla famiglia di origine e alla ricerca di indipendenza economica». Anche la povertà assoluta «coinvolge soprattutto le giovani generazioni: la quota dei poveri assoluti tra i minori (12,5%) e tra i giovani fino a 34 anni (10%) è circa tripla di quella registrata tra gli anziani (3,8%) e coinvolge ormai 1 milione 292 mila minori e 1 milione 17 mila giovani».
La trovare lavoro e reddito la formazione è un’arma ancora utile, da continuare ad affilare, ma troppo spesso non è sufficiente. Anzi: l’Istat valuta come «decisamente negativi i segnali sulla capacità dell’Italia di attrarre occupazione altamente qualificata ovvero di favorire prospettive di occupazione per i laureati italiani», tanto che la «quota di sovraistruiti aumenta quasi esclusivamente per i giovani» e non c’è dunque da stupirsi se nel «2016 circa 16 mila giovani laureati hanno lasciato il nostro paese e poco più di 5 mila sono rientrati».
Il danno è sia economico (l’istruzione pubblica pagata dal contribuente costa, ma poi non si permette di metterla a frutto), sociale (limitando le possibilità di sviluppo ed equità) e anche ambientale. La quota di italiani insoddisfatti del paesaggio del luogo in cui vivono è pari al 21,5%, ma la consapevolezza è più diffusa tra i giovani (superando il 25%) e tra i laureati (23,6%), ai quali però non viene data voce.
Il sintomo di questi squilibri profondi che attraversano la società italiana spaccano dall’interno un tessuto sociale che presenta criticità: la soddisfazione per le relazioni familiari è al 33,2%, per quelle amicali al 23,6%, e «solo una persona su cinque ritiene che la maggior parte della gente sia degna di fiducia». Figurarsi le istituzioni: sempre meno sono le persone (36,7%) che parlano di politica, e tra i motivi prevale la mancanza d’interesse (61,8%) insieme alla sfiducia verso la politica italiana (30,4%).
È in contesto così doloroso e sfilacciato che emerge però con tutta la sua forza l’italica capacità d’arrangiarsi, facendo buon viso a cattivo gioco. Tanto che tra gli italiani «la soddisfazione per la propria vita mostra netti segnali di miglioramento nel 2016, con il 41% degli individui che ne dà una valutazione molto buona» oggi, anche se non s’ha idea di cosa potrà accaderci domani. Cresce infatti contemporaneamente «l’incertezza rispetto al futuro: la quota di quanti non sono in grado di esprimere una previsione sull’evoluzione della propria situazione nei prossimi 5 anni sale al 25,4%». Se una risposta valida arriverà dalle istituzioni a sanare quest’incertezza, non dovrà che incrociare i problemi di disuguaglianza, giovani e ambiente. Per un benessere che sia davvero equo e sostenibile.