Nella Carta delle Responsabilità 2017, promossa da un folto gruppo di esponenti delle Istituzioni e della società civile milanese e italiana, tra cui chi scrive, vi è un principio guida: la responsabilità dei singoli per arrestare i conflitti che insanguinano il nostro tempo, per trovare la strada del loro superamento. (Scopri di più su: Gariwo.net)
  • Analisi di Janiki Cingoli, Presidente CIPMO - Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente
Alla base dell’odio allo stato puro che si è manifestato nei diversi focolai di crisi, a cominciare dalla Siria e dall’Iraq, allo Yemen, alla Libia, per arrivare alla Nigeria, e ai massacri in Egitto contro la numerosa minoranza copta, ad alcuni episodi dello stesso secolare conflitto israelo-palestinese, vi è un elemento comune: il processo di disumanizzazione di quello che viene identificato come il nemico e che si deve uccidere in nome di Dio. Un processo, questo, che disumanizza anche chi lo intraprende, in una spirale terribile che porta all’annichilimento stesso della nostra comune identità umana.

Nella Carta si afferma: “La sfida più difficile è l’accettazione dell’altro nella nostra società.”

È fondamentale richiamare al riguardo quello che è uno degli insegnamenti essenziali della Bibbia, testo comune a base delle tre fedi di origine abramitica: la necessità, quando si è di fronte all’Altro, di spogliarsi dei propri vestiti, e di indossare quelli di chi ci è di fronte. È in definitiva il principio che mi ha guidato in questi oltre 35 anni che ho dedicato a costruire ponti di dialogo e canali di comunicazione tra le parti in conflitto, e che è stato l’elemento costitutivo e fondativo di CIPMO.

Lo stesso nostro Progetto, portato avanti in questi ultimi anni, che coinvolge studenti e docenti di Istituti Scolastici Superiori della Lombardia e di numerosi Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo (Marocco, Tunisia, Israele, Palestina, Turchia), creando un network di relazioni, di dialogo e di comprensione reciproca, attraverso percorsi condivisi di interscambio umano e di progetti didattici costruiti insieme, ha per titolo “Mediterraneo. Lo Specchio dell’Altro”, a significare che confrontarsi e comprendere l’Altro significa anche riflettere e comprendere meglio noi stessi, allargando i confini del nostro spirito e della nostra mente.

Devo confessare tuttavia che vi è in me una crescente insofferenza verso il modo di affrontare i diversi conflitti ed emergenze in atto in tutta l’Area, che sempre più diventa gestione dei conflitti e delle crisi, più che adozione di politiche effettive ed efficaci per il loro superamento. Quello che pare a me sempre più necessario è uno sguardo lungo, la capacità di andare oltre il quotidiano, all’emergenza.

Ma oltre a ciò appare evidente l’incapacità delle diverse potenze in campo di risolvere le diverse crisi, e la necessità che siano anche le società civili, gli individui e le articolazioni sociali che le compongono, a scendere in campo, a intervenire, a dire la loro, a spingere sulle istituzioni pubbliche, a creare ponti e canali di dialogo fra le parti in conflitto.

Questo vale innanzi tutto per la Siria, dove la sconfitta dell’ISIS, che sembra approssimarsi, non è la fine del problema, ma l’inizio della sua soluzione. Resta incerto, e in larga parte incognito, il percorso da compiere per ricostruire una Siria rinnovata, inclusiva di tutte le sue diverse componenti etniche e religiose, per superare l’odio e il desiderio di vendetta che le mostruosità esplose nel corso della guerra civile hanno certamente generato, per contrastare i sicuri appetiti dei diversi player che escono vincitori dal confronto, volti a spartirsi ciò che resta del Paese.

E ancora di più questo approccio vale per la Libia, dove certo bisogna sostenere e rafforzare il Premier Sarraj e il suo Governo, che sono gli unici internazionalmente riconosciuti, anche se il loro controllo sul terreno è fragile e parziale, limitandosi solo a parte della Tripolitania; promuovere un processo di ricomposizione nazionale che includa i maggiori protagonisti sul terreno, a cominciare dal Generale Haftar, che controlla la Cirenaica ed è sostenuto da Russia, Egitto, Emirati e Francia (che pure riconoscono ufficialmente il Governo Sarraj); portare avanti la lotta contro il traffico di esseri umani generato dai flussi di immigrazione illegale; assicurare il rispetto dei diritti umani nei campi di rifugiati e immigrati - pubblici e privati - diffusi in tutto il Paese, su cui si concentrano interessi economici e speculativi di enormi dimensioni; difendere i confini meridionali del paese; favorire un processo di superamento dell’attuale frammentazione della forza militare in centinaia di milizie armate, cercando per quanto possibile di inquadrarle in una cornice istituzionale e nazionale, che consenta la creazione di un esercito, di una forza di polizia e di servizi di sicurezza che siano articolazioni di uno Stato rinnovato e rifondato, combattendo e sconfiggendo al contempo le milizie di impronta jihadistica e terroristica. Un processo di State building complesso, lungo e difficile, bisogna saperlo, e che richiede un grande sforzo della Comunità internazionale, che ancora non si vede.

Ma si pongono due domande, essenziali: cosa fare dei circa 300.000 rifugiati e immigrati ammassati in quei campi in Libia? Oltre al necessario e a tutt’oggi non garantito rispetto dei diritti umani essenziali, qual è il futuro che si propone loro? Davvero si pensa che sia sufficiente la pratica dei rimpatri incentivati, portata meritoriamente avanti dall’OIM in una misura di circa 1000 rimpatri all’anno via aerea e dando in dote ad ogni rimpatriato un migliaio di Euro? E poi: mentre si combatte il traffico inumano dell’immigrazione illegale, cosa si propone per assicurare flussi regolari di immigrazione legale?

Il problema, si badi, non riguarda solo la questione dei rifugiati, per cui va generalizzata l’esperienza, portata avanti dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e dalla Comunità di Sant’Egidio (grazie al Finanziamento dell’8x1000 della Chiesa Valdese), di creazione di canali umanitari prioritari che consentano di svolgere tutti gli accertamenti e chiedere tutte le necessarie autorizzazioni in loco, organizzando gli arrivi attraverso canali ufficiali, aerei o navali, ed evitando ai richiedenti asilo l’attuale calvario.

Così è urgente, come insistentemente richiesto da Italia e Grecia, riformare profondamente il regolamento di Dublino del 2013, che riserva solamente allo Stato di prima accoglienza la responsabilità di vagliare ed eventualmente accogliere le richieste d’asilo presentate. Una esigenza di riforma che è stata portata avanti dal Parlamento Europeo, si è oramai fatta strada nei recenti vertici europei ed Euro-africani, e che è necessario ora tradurre in decisioni concrete che suddividano equamente tra tutti gli Stati membri la responsabilità dell’accoglienza, superando le accanite resistenze del blocco del Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), cui spesso si accodano anche l’Austria e la stessa Francia.

Ma i rifugiati rappresentano solo il 10% del totale: cosa fare per tutti gli altri? Per battere l’immigrazione illegale è necessario creare canali ordinari e regolati di immigrazione legale, coerenti alle esigenze del nostro sistema economico e adeguatamente preparati con processi formativi nei Paesi d’origine, sia di lingua italiana o degli altri Paesi destinatari dell’accoglienza, sia con percorsi mirati di formazione professionale, in stretto raccordo con i governi locali e su basi di reciproco vantaggio. Ancora una volta, se è necessario l’impegno su larga scala delle istituzioni pubbliche nazionali ed europee, il ruolo delle ONG e delle organizzazioni private, di carattere sociale ed anche imprenditoriale, appare essenziale.

Inoltre, non è certo sufficiente bloccare gli accessi sulle frontiere meridionali della Libia, un provvedimento di emergenza che non può reggere sul lungo periodo.

È necessario avviare contestualmente progetti di co-sviluppo con i Paesi di origine dei flussi migratori, che superino ogni residuo e ancora permanente carattere assistenziale o di mero scambio di convenienze, che attualmente appaiono prevalenti (finanziamenti ai regimi locali in cambio di blocco dei flussi emigratori): l’approccio deve invece essere basato su parità e reciprocità di interessi, coinvolgendo per quanto riguarda il nostro Paese (come a livello europeo) l’insieme del Sistema Italia, dalle ONG già attive al riguardo, al complesso delle organizzazioni imprenditoriali e alle singole imprese potenzialmente interessate, che vanno tuttavia indirizzate e assistite.

Il rapporto con l’Africa non va concepito come residuale, ma come opportunità primaria, come d’altronde hanno ampiamente compreso molti dei principali player internazionali, dalla Cina all’India, alla Turchia, allo stesso Israele, sempre più largamente presenti nel Continente. Il ritardo dell’Italia e dell’Europa al riguardo appare già oggi enorme, e difficilmente recuperabile, ma è comunque urgente muoversi subito, con una visione strategica coerente e in un’ottica di lungo periodo, che individui nei Paesi del Nord Africa, a partire dal Marocco, dalla Tunisia e dall’Egitto, gli indispensabili Hub di collegamento con il continente.

Occorre avere la capacità di comprendere che, al di là dei focolai di crisi, esistono in tutta quest’Area enormi risorse energetiche, ambientali, nuove opportunità offerte dalla innovazione tecnologica, dalla stessa Blue Economy (l’Economia del mare), che vanno necessariamente oltre i singoli confini nazionali, che devono essere gestiti a livello di area, superando barriere, odi e guerre. Risorse e opportunità che vedono venire alla ribalta nuovi protagonisti, forze imprenditoriali, uomini di scienza, protagonisti di una nuova cultura dell’umanità, che premono per una cooperazione intraregionale ed Euro-Mediterraneo-Africana, spezzando la scorza dura degli odi sedimentati e degli endemici conflitti.

La prima priorità, in questo processo, appare quella di vuotare al più presto i campi profughi sparsi in Libia, ufficiali e privati, attivando un programma straordinario da gestire al livello europeo e internazionale, assicurando i necessari fondi, anche attraverso la pratica dei rimpatri assistiti, ma concedendo contestualmente l’ingresso in Italia e in Europa (che non può continuare a lavarsene le mani) ai rifugiati che ne hanno diritto, e agli immigrati che hanno la potenzialità di integrarsi nella realtà europea, anche attraverso i necessari processi formativi preliminari da svolgere anche in loco, in strutture adeguate e protette. Si tratta di una operazione enorme, che dovrà misurarsi con interessi speculativi locali di grandi dimensioni, che riguarda circa 300.000 persone ammassate in questi campi profughi in condizioni drammatiche, una piaga purulenta che non va lasciata marcire: ancora una volta è essenziale il ruolo del volontariato e delle ONG - che devono accettare di misurarsi con questa sfida superando resistenze residue e talora consolidate prassi basate sul mantenimento di questo inaccettabile status quo -, e anche quello del Sistema delle imprese che possono assorbire tali flussi.

Infine, per quanto riguarda la massa di rifugiati e immigrati che in questi anni sono stati meritoriamente salvati in mare dall’Italia, l’attenzione si è finora concentrata sull’emergenza, giusta, del salvataggio, anche se ora le traversate sui gommoni sono drasticamente calate. Ma cosa accade il giorno dopo l’accoglienza? Anche qui è necessario andare oltre l’emergenza, mettendo in atto coerenti politiche per favorire una effettiva inclusione di rifugiati e immigrati, contrastare i processi di radicalizzazione e combattere le possibili degenerazioni jihadistiche che possano manifestarsi.

A questo scopo, è certo necessario assicurare i necessari servizi di vigilanza e prevenzione, che d’altronde hanno già dimostrato tutta la loro efficienza in tutto questo così tormentato periodo. Ma questo appare di per sé insufficiente.

Appare in primo luogo essenziale fare perno sulle Comunità diasporiche e le Comunità religiose di appartenenza dei nuovi arrivati, unitamente al tessuto del volontariato civile e religioso e in stretta collaborazione con le Istituzioni locali e nazionali, e quando necessario con gli stessi servizi di sicurezza e con le istituzioni giudiziarie, onde evitare processi di formazione di nuovi ghetti, di cui si è potuto constatare in Belgio tutta la potenziale pericolosità.

Queste comunità possono svolgere un ruolo essenziale per l’inclusione dei nuovi arrivati, ed anche come prezioso ponte con i Paesi di origine, ma le loro strutture organizzate, le loro associazioni, sono spesso inadeguate e fragili, e devono essere sostenute per poter svolgere questo loro ruolo primario. Stesso discorso vale per le comunità religiose, che devono avere la forza di confrontarsi con la Medusa del terrorismo, guardandola in faccia, ricercandone le radici anche al loro interno, e mobilitandosi per contrastare i processi di radicalizzazione e espellere le tendenze jihadistiche dal loro seno, combatterlo e sradicarlo.

Su questo necessario “Ruolo delle Diaspore di Origine MedAfricana (Mediorientale e Africana) per l’accoglienza e l’inclusione di Rifugiati e immigrati”, da ormai due anni CIPMO sta sviluppando uno specifico progetto di dimensione nazionale, supportato dal nostro Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Più in generale, vi è un problema di riflessione sul ruolo e sulla condizione delle minoranze etniche, linguistiche e nazionali sui due versanti dell’Area EuroMediterranea, una realtà che viene troppo spesso guardata dagli Stati nazionali o dalle maggioranze etniche o religiose dei diversi Paesi come un pericolo da controllare e contenere, se non come potenziali quinte colonne. In questo, l’esperienza italiana, che attraverso l’articolo 6 della nostra Costituzione garantisce la tutela delle minoranze linguistiche, anche attraverso l’adozione di misure positive per la loro salvaguardia, rappresenta una esperienza pilota estremamente positiva (con particolare riferimento all’esperienza dell’Alto Adige – Sud Tirolo, pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni), che va messa a disposizione nell’attuale contrastato e a volte drammatico contesto EuroMediterraneo.

Su questi aspetti, CIPMO, in collaborazione con la Provincia Autonoma di Bolzano, ha favorito la nascita di una specifica Antenna CIPMO, giuridicamente autonoma, la cui iniziativa è specificamente focalizzata su questo tema delle minoranze EuroMediterranee.

Credo che sia giusto concludere queste mie considerazioni con un brano tratto dalla nostra Carta delle Responsabilità: “C’è un solo modo di vincere la paura che genera mostri e provoca un clima di sospetto e di insicurezza, dove tutti diventano nemici: la perseveranza nel ricercare assieme la nostra comune umanità e la nostra capacità di pensare e di giudicare, mettendoci sempre nei panni degli altri. Come è sempre accaduto nella storia, un percorso di simbiosi e mimesi tra civiltà diverse avviene, pure in modo non lineare, all’interno di un’esperienza comune dove si scoprono con curiosità le possibili somiglianze tra le culture e le medesime responsabilità nei confronti del mondo.”

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