Talvolta i nuovi Stati, o i popoli che aspirano all'autodeterminazione, sperano in un avvenire democratico; altre volte sono Stati sovrani di lunghissima data come l'Inghilterra a invocare una loro peculiarità; ma a che condizioni la democrazia può formarsi, oppure salvaguardarsi? Il 20 ottobre 2017, l'ex Alto Rappresentante per la Politica estera e la Difesa comune europea ed ex Segretario Generale della Nato
Javier Solana ha scritto per Project Syndicate un articolo che fa chiarezza sul difficile rapporto tra lo stato-nazione, l'integrazione economica dei Paesi e la democrazia. (Scopri di più su:
Gariwo.net)
Madrid. Nel suo famoso “trilemma politico dell'economia mondiale”, l'economista di Harvard
Dani Rodrik afferma coraggiosamente che l'integrazione economica, lo stato-nazione e la democrazia non possono coesistere e che nel migliore dei casi possiamo combinare due fattori su tre, ma sempre a spese di uno.
Fino a poco tempo fa, il cosiddetto Consenso di Washington, con la sua enfasi sulla liberalizzazione, la deregulation e la privatizzazione, è stato l'elemento che ha dato forma alle politiche economiche in tutto il mondo. Mentre la crisi finanziaria globale del 2008 erodeva la sua credibilità, i Paesi del G20 hanno convenuto rapidamente di evitare le politiche protezioniste contro cui era espresso tale consenso.
Nel frattempo, l'Unione Europea rimaneva (e resta) l'unico esperimento democratico sul piano sopranazionale, che mena vanto dei suoi progressi promettenti, nonostante sia afflitta da numerosi difetti. In altre parole, l'integrazione economica, ancorata nello stato-nazione, è rimasta in auge, mentre la democrazia in qualche modo è stata vista come ancillare rispetto alle dinamiche del mercato internazionale.
Tuttavia il 2016 ha segnato un momento di svolta, anche se non sappiamo ancora verso che cosa. È emerso un “Consenso di Pechino”, che alcuni vedono come un modello alternativo di sviluppo basato su un maggiore intervento statale. Eppure sono stati il voto per la Brexit e l'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti a riflettere realmente il movimento per sospendere l'equilibrio di lunga data tra la globalizzazione, lo stato-nazione e la democrazia.
“Riprendiamoci il controllo” era lo slogan con cui hanno vinto i fan della Brexit, che esprimeva un sentimento che chiaramente entrava in risonanza empatica con la ridotta maggioranza di elettori britannici che supportavano l'uscita dall'UE. Analogamente, molti elettori di Trump erano convinti che il cumulo dei poteri di Wall Street, degli attori transnazionali e perfino di altri Paesi doveva essere governato per “fare di nuovo grande l'America”.
Non sarebbe saggio disprezzare questa diagnosi, sulla quale lo stesso Rodrik conviene (almeno in parte), solo perché non ci piacciono le proposte avanzate da Trump e da alcuni dei fautori conservatori della Brexit. Il loro approccio consiste nell'ostacolare la globalizzazione - mantenendo o perfino rafforzando altri aspetti del Consenso di Washington, come la deregulation finanziaria – e conferendo più forza alla democrazia attraverso lo stato-nazione.
Nella sua prima apparizione davanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Trump ha pronunciato un discorso di 42 minuti, nel quale ha usato le parole “sovranità” o “sovrano” 21 volte – il che corrisponde a una media di una volta ogni 2 minuti. E in Europa, il Regno Unito non è l'unico Paese a essere trascinato da una corrente neo-westfaliana (la pace di Westfalia del 1648, che segnò la fine della Guerra dei Trent'anni, aprì anche la porta a una società internazionale di Stati sovrani come è stata intesa nei secoli successivi, almeno fino al 1945 - NdT): la Polonia e l'Ungheria sono anch'essi in questa morsa. Perfino il movimento indipendentista catalano, guidato da diversi partiti la maggior parte dei quali non si sentirebbe a suo agio con l'etichetta di “anti-globalizzazione,” segue una logica simile di ritiro nel nazionalismo.
Tutte queste forze sovrastimano la propria capacità di diminuire la portata degli effetti dell'integrazione economica, rafforzati negli ultimi decenni dal rapido sviluppo delle catene di valore trasnfrontaliere, o di evitarli tout court. A meno che queste forze non cambino direzione, è più facile che esse diminuiscano l'influenza che i loro stati-nazione (o di quelli che vorrebbero creare) potrebbero avere sulla globalizzazione. In breve, un aumento della sovranità formale potrebbe paradossalmente avere per effetto una perdita di sovranità effettiva, che è il genere di sovranità che conta sul serio.
Si consideri ad esempio la Gran Bretagna: uscendo dall'UE, i britannici non avranno più la possibilità di dire la loro su quello che è di gran lunga il loro mercato più importante per le esportazioni. Per quanto concerne la Catalogna, un presunto movimento indipendentista e sovranista potrebbe finire per creare una comunità politica meno sovrana e più alla mercé degli eventi internazionali.
Appena una settimana dopo il discorso di Trump all'ONU, il Presidente francese Emmanuel Macron ha presentato la sua visione del futuro dell'Europa in un discorso alla Sorbona. Anche Macron ha citato la parola “sovrano” ripetutamente, chiarendo così che essa costituisce la base della sua visione dell'Europa. Tuttavia, diversamente dai populisti, egli è in favore di una sovranità effettiva e inclusiva, di portata europea e sostenuta da due pilastri chiave in più: l'unità e la democrazia.
Le relazioni tra Stati sono improntate alla cooperazione, alla competizione o allo scontro. Ci sono pochi dubbi che un certo grado di conflittualità sarà sempre presente a livello internazionale, ma l'UE ha chiaramente dimostrato che la sua incidenza può essere ridotta esponenzialmente aumentando il costo opportunità delle dinamiche conflittuali. Purtroppo, i movmenti che comprendono la sovranità in termini isolazionisti generalmente ricorrono al nazionalismo estremo, che non è fatto per promuovere gli spazi comuni che permettono alla società internazionale di prosperare.
La preferenza di alcuni Paesi verso la chiusura nei propri confini è quindi anacronistica e destinata alla sconfitta, ma sarebbe un grave errore per gli altri, come abbiamo detto, reagire evitando il coinvolgimento con questi Stati per timore del contagio. Lo spirito di cooperazione, insieme alla competizione costruttiva, dovrebbe strutturare le relazioni tra tutti gli attori che possiedono legittimazione internazionale. Perfino in Paesi che hanno ceduto al discorso riduzionista, la maggior parte della popolazione non lo ha fatto. È il caso per esempio del 48% di elettori britannici che era contrario alla Brexit, o del 49% dei turchi che ha votato “no” all'espansione dei poteri della Presidenza turca, rigettando implicitamente una narrazione che utilizzava l'UE come capro espiatorio. Molti di questi elettori sarebbero sicuramente delusi se l'UE voltasse loro le spalle.
La vitalità della società internazionale dipende dal dialogo e, per evitare di perpetuare le carenze del Consenso di Washington, che si sono rivelate con così grande chiarezza nel 2016, questo dialogo deve avvenire nella cornice di una sfera pubblica comune e democratica. Se coltiviamo questa sfera pubblica comune, riducendo la preminenza dello stato-nazione, potremmo gradualmente avanzare verso il meno esplorato elemento della triade descritta da Rodrik: la democrazia globale.
Certamente, una democrazia universale sarebbe un obiettivo molto difficile da raggiungere (Rodrik lo esclude). Ma, con lo sviluppo tecnologico e la moltiplicazione delle sinapsi economiche e culturali, non è una chimera. In tal senso, l'UE ha già dato inizio a un nuovo percorso, che mira a espandere la democrazia oltre l'ambito dello stato-nazione. Per l'Europa, come per altre regioni, è un percorso che vale la pena seguire.