Una strana creatura si aggira da qualche tempo nel mondo giuridico: si tratta del baratto, antichissima elementare forma di scambio economico, atterrata però nel mondo dell’amministrazione, cioè della “cura concreta dell’interesse pubblico”, dando vita così al “baratto amministrativo”. (Scopri di più su:
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Il baratto amministrativo nell’elaborazione giuridica
La formula si diffonde, pur in difetto di appigli normativi, in relazione all’art. 24 del D.L. “Sblocca Italia” del 2014; più esattamente essa costituisce un’interpretazione riduttiva di una norma che, finalizzata ad agevolare la “partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio”, in ragione all’esercizio sussidiario delle attività contemplate, si incentra sulla progettualità dei cittadini e sul ruolo prioritario, ancorché non esclusivo, delle “comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute”, ma viene invece convertita, in molteplici prassi applicative, in uno strumento di sostegno alle fasce deboli della cittadinanza; se ne pone infatti il fulcro nella possibilità di deliberare riduzioni o esenzioni di tributi in una logica di “remunerazione” delle attività previste.
Un ulteriore sviluppo di tale approccio si ha quando numerosi Comuni più o meno disinvoltamente decidono di far ricorso al meccanismo non in cambio di sconti fiscali, ma a saldo di debiti pregressi di soggetti in condizioni di difficoltà economica. Sarà poi la
Corte dei Conti, a partire da una deliberazione della sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, ad escludere l’adempimento di tributi locali “attraverso una sorta di datio in solutum ex art 1197 c.c.” nell’ambito del “cd. baratto amministrativo”, riconducendo invece correttamente la norma dell’art. 24 ad “espressione del principio della sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, Cost.”.
La formula viene da ultimo fatta propria dal legislatore nell’art. 190 del Codice dei contratti pubblici (solo in parte riproduttivo dell’art. 24), il quale, mentre riconduce la disciplina alla logica contrattuale propria del partenariato, sia pure atipico e “sociale”, sembra avviare al tempo stesso un percorso di divaricazione dell’istituto dai meccanismi della sussidiarietà orizzontale, distintamente individuati nell’art. 189.
Sussidiarietà è capacitazione: l’esperienza britannica
Al cuore della sussidiarietà non sembra rinvenirsi infatti una logica “remunerativa” e di scambio. Fin dalle sue radici metagiuridiche (si pensi all’idea che il miglior aiuto è l’aiuto ad aiutarsi, secondo le parole del gesuita O. Von Nell Breuning, uno degli ispiratori dell’enciclica Quadragesimo Anno in cui la sussidiarietà viene pienamente tematizzata come uno dei cardini della dottrina sociale cattolica) la sussidiarietà esprime nella sua intima essenza la valorizzazione della capacità ed autonomia della persona e delle sue forme associative e correlativamente postula nell’apparato pubblico una funzione di lievito, di enzima catalizzatore di tale potenziale endogeno, ai fini dello “svolgimento di attività di interesse generale”, secondo formule variamente definite, nei differenti approcci disciplinari, come “capacitazione”, enablement, community empowerment.
Un utile modello di confronto, proprio in riferimento a vicende interessate anche dal “baratto amministrativo”, ci proviene ad es. dal fenomeno delle community (o community-led o community-based) enterprises del Regno Unito, declinazione specifica delle social enterprises, protagoniste di processi di rigenerazione urbana caratterizzati da una correlazione stretta con una determinata comunità – con le proprie risorse – destinataria di processi di cd. capacity building e ad un tempo chiamata essa stessa a partecipare attraverso propri membri alla gestione dell’impresa.
Il “rapporto osmotico” che si instaura tra tali figure e le rispettive comunità risulta infatti dalla circostanza, evidenziata anche da una recente analisi, che le community enterprises sono ad un tempo di proprietà della comunità, sono gestite dalla comunità, sono controllate dalla comunità, sulla quale rifluiscono inoltre utili e incrementi di capitale conseguenti all’attività imprenditoriale che le caratterizza. Quanto all’àmbito di tale rigenerazione si è sottolineato come il cruciale processo di acquisizione delle risorse (acquiring asset process) affidate alle community enterprises abbia ad oggetto prevalentemente spazi residuali o immobili dismessi (con elevati costi di manutenzione e gestione), quali «comparti scolastici degradati, biblioteche abbandonate, palazzi ed uffici municipali sovradimensionati», come esemplifica un rapporto del 2004 della Local Government Association, e, soprattutto, come tale rigenerazione abbia il proprio fulcro nel “capacity development”.
Oltre che i processi di rigenerazione e riqualificazione di quartieri, esse riguardano anche i “negozi di comunità” che, costituiti talora in risposta allo shock determinato dalla chiusura dell’unico punto vendita di riferimento della realtà locale, assumono non di rado un ruolo multifunzionale (ad esempio, anche di bar o di ufficio postale del paese), garantendo servizi fondamentali per i residenti e in molti casi anche per le comunità limitrofe, o i Community pubs o Co-operative pubs, legati ad una struttura caratteristica della tradizione inglese, al punto da rappresentare spesso il centro della vita comunitaria e luogo di interazione sociale.
Il ruolo di queste imprese sociali trova peculiare espressione poi nel Localism Act 2011 inglese, la cui Parte V è espressamente intitolata al Community Empowerment, dunque ad un rafforzamento della capacità della comunità di operare da sé, nelle forme, ad es., del community right to challenge, che vede l’amministrazione gravata di un obbligo di prendere in considerazione manifestazioni di interesse di associazioni di cittadini volte alla fornitura di servizi di interesse generale, o del community right to bid, ruotante intorno a lands o buildings (librerie, biblioteche, negozi, pubs, stadi di calcio, parchi), che, in quanto forniti di un “valore comunitario” – e in ragione di ciò inclusi in un’apposita lista di tali beni “comuni” – divengono a certe condizioni suscettibili di iniziative da parte di community groups tese a conservarne la fruizione a favore della comunità.
C’è poi la possibilità di prender parte, sia pure in maniera mediata, a quella “pianificazione di quartiere” (Neighbourhood Planning) che offre alle comunità locali l’opportunità di interloquire nel guidare e dare forma allo sviluppo auspicato di una determinata area.
Non c’è qui il nome, ma c’è la sostanza di una sussidiarietà “creativa”, che incentiva la “intelligenza locale” e ad un tempo ne beneficia.
E in Italia?
Guardando all’esperienza italiana, in questa linea si pongono, oltre ai vari Regolamenti sulla cura e rigenerazione dei beni comuni urbani e sull’amministrazione condivisa ed ai conseguenti patti di collaborazione, anche figure, quali le imprese (sociali) di comunità e le cooperative di comunità, di recente all’attenzione della dottrina e del legislatore (due percorsi suscettibili, si noti, di incrociarsi e fecondarsi reciprocamente).
Anche le emergenti imprese comunitarie domestiche si incardinano infatti sulla capacità di attivare la cittadinanza di una località, le sue risorse ed i suoi capitali “dormienti”, accentuandone la dimensione imprenditoriale per la rigenerazione di un territorio; le pionieristiche legislazioni regionali ne enfatizzano il ruolo di attori centrali di una “funzione diffusa”, di protagonisti di una co-amministrazione, nella linea di una sussidiarietà “circolare” e non oppositiva.
Fra i limiti indicati nell’esperienza anglosassone sono emerse peraltro le difficoltà nel reperire finanziamenti, specie in un contesto di risorse pubbliche decrescenti. Vi si potrebbe forse ovviare sperimentando in proposito il ricorso a nuovi strumenti suggeriti dalla dottrina meta-giuridica, quali i local impact funds; i social impact bonds (o pay for success bonds, utilizzati, nella recente esperienza americana, anche in un ambito, diverso da quelli tradizionali, quale il recupero delle aree urbane), le community shares quale strumento per consentire ai residenti di investire in progetti comunitari e in generale le varie forme di crowdfunding, compreso da ultimo il social lending (o lending based crowdfunding, o crowdlending), contemplate dalla recente riforma del Terzo settore.
A proposito di quest’ultima riforma ulteriori prospettive si delineano anche nell’aspetto dell’acquisizione delle risorse: fra i principi contenuti nella legge delega figurano, infatti, la promozione dell’assegnazione degli immobili pubblici inutilizzati in favore degli enti da essa disciplinati, anche in associazione tra loro (oltre che dei beni immobili e mobili confiscati alla criminalità organizzata) e la previsione di agevolazioni volte a favorire il trasferimento di beni patrimoniali agli enti medesimi, mentre il relativo Codice prevede il social bonus in favore di progetti di recupero dei beni suddetti.
In ogni caso da quanto sinteticamente accennato appare una prospettiva assai più comprensiva di quella del “baratto”, la quale attinge ai contenuti profondi della democrazia ed alle declinazioni più pregnanti della sovranità, concorrendo a quella emancipazione del suddito in co-amministrante preconizzata da una profetica dottrina. Non di nuove creature fantastiche abbiamo infatti bisogno, ma di reali cittadini attivi e della loro altrettanto attiva libertà.
Riferimenti bibliografici:
- Le Xuan – L. Tricarico, Imprese comuni. Community enterprises e rigenerazione urbana nel Regno Unito, Maggioli Editore, 2014
- La cooperazione di comunità per uno sviluppo locale sostenibile, Studio di fattibilità su “Lo sviluppo delle cooperative di comunità”, Report finale, Roma, 17 novembre 2016, reperibile in rete