Quell’utopia che serve a camminare. Nel suo ultimo libro, Riccardo Petrella ripensa “La forza dell’utopia” in un’opera collettiva. (Scopri di più su:
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Rispondendo alla domanda «a cosa serve l’utopia?», lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano un giorno rispose: «Lei è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».
Colpisce che, dopo essere stato teorizzato da Tommaso Moro e, in tempi più recenti, dal filosofo tedesco Ernst Bloch, nonché vagheggiato da milioni di sognatori del «sol dell’avvenire», il concetto sia stato colonizzato dai padroni del mondo: l’utopia della fine della storia, del cosmopolitismo pacifico, di una società senza conflitti sociali né lotta di classe, funzionali all’affermazione di un pensiero unico, neoliberale, che avvantaggia pochi a danno dei più.
Bene ha fatto Riccardo Petrella a provare a ripensare il termine in un’opera collettiva (La forza dell’utopia, Multimage, pp. 184, euro 10) che si compone di tre parti distinte. Nella prima, si analizza il principio utopico, considerato come «un cammino aperto», da opporre alle nozioni «negativa» e «difensiva» dello stesso. Largo alle definizioni, dunque: «non accettare le cose come stanno», «riconquistare la capacità di pensare e di agire nelle e sulle relazioni tra gli esseri umani e tra questi e la natura», «sentirsi a casa». Petrella, professore all’università belga di Lovanio e fondatore dell’Università del bene comune, affronta la questione dell’utopia europea che, pur irrealizzata, rimane come «assunzione di responsabilità su un obiettivo». Per l’economista Bruno Amoroso «le utopie dei popoli sono sempre state abbattute e abolite fin nel pensiero e sostituite con false alternative»: attraverso la democrazia borghese i popoli europei sono stati tenuti al guinzaglio. Per questo, le persone comuni devono praticare «un modo giusto di vita» rendendosi «invisibili alla società e al potere».
La seconda parte è dedicata all’apertura di orizzonti: dal «senso utopico», vale a dire cos’è, come si manifesta ed è vissuto nei vari tempi e spazi delle comunità umane, come promuoverlo e proteggerlo), ai «mutamenti di società». Qui, va menzionato lo schema di «macroindicatori» e «indicatori particolari» formulato da Jean-Pierre Wauquier, medico e presidente dell’associazione H2O senza frontiere, uno dei primi «dottori honoris causa» in Utopia, un singolare riconoscimento conferito ogni anno dall’Università del bene comune (quest’anno è toccato a una cooperativa sociale di donne casertana, la New Hope).
Nella terza e ultima parte, si affronta il nodo della città come luogo dei mutamenti, dove possono essere costruite «comunità umane» e costituzionalizzati i diritti dei cittadini. Per Petrella è necessario «ri-cittadinare la città»: è necessario che i cittadini prendano in mano la res publica anche con nuove forme di organizzazione politica partecipata, in modo da riorientare i beni comuni e i servizi pubblici al «ben essere» e al «buen vivir». Qualcuno ci sta già provando, con esiti alterni. Ma, come diceva Galeano, l’importante è camminare.