Trent’anni di politiche hanno ‘lasciato fare’ al mercato, gonfiato la finanza, trasferito potere e profitti alle imprese. Occorre ora rimettere al primo posto la politica. Un estratto dal volume ‘Indicativo futuro: le cose da fare’, appena uscito per Edizioni Gruppo Abele. (Scopri di più su:
Sbilanciamoci.it)
Dieci anni fa scoppiava la crisi finanziaria negli Stati Uniti e in Italia l’economia non si è ancora ripresa. Il Prodotto interno lordo (Pil) del paese ristagna, il reddito pro-capite – circa 25 mila euro – è tornato al livello di vent’anni fa, le misure di benessere suggeriscono che siamo tornati ai livelli di trent’anni fa.[1] Questi dati descrivono i valori medi per l’Italia, ma gli effetti della crisi hanno colpito ricchi e poveri in modo opposto. I salari del 10% più povero dei lavoratori dipendenti tra il 1990 e il 2013 hanno perso un terzo del loro valore, quelli del 25% più povero hanno perso il 30%, mentre quelli del 10% meglio pagato sono lievemente cresciuti fino al 2008 e poi sono tornati ai livelli iniziali. Le disuguaglianze sono aumentate a livelli senza precedenti; nel 2010 l’indice di Gini delle disuguaglianze dei redditi di mercato ha superato il livello di 0,50 (era 0,38 nel 1985); quello corretto per tasse, trasferimenti e valore dei servizi pubblici fuori mercato supera lo 0,25 ed è il più alto tra i maggiori paesi europei; l’Istat ha calcolato che nel 2014 (ultimo anno per cui sono disponibili dati effettivi) il 20% più ricco del paese aveva un reddito 5,8 volte superiore a quello del 20% più povero, il valore più alto dei dieci anni precedenti.[2]
Sono questi i risultati di trent’anni di politiche hanno ‘lasciato fare’ al mercato, gonfiato la finanza, trasferito potere e profitti alle imprese. Occorre ora rimettere al primo posto la politica, con gli obiettivi economici di uscire dalla stagnazione, sviluppare produzioni ‘buone’ e sostenibili, ridurre le disuguaglianze, rendere l’economia più giusta.
Portare l’Italia fuori dalla crisi[3]
Senza la politica il paese non esce dalla stagnazione: le esportazioni mondiali crescono meno del Pil, gli investimenti sono crollati e non riprendono, il mercato da solo non ce la fa. Soltanto un aumento della spesa pubblica può aumentare la domanda stimolando una ripresa dell’economia.
Si può proporre una nuova spesa pubblica – per servizi pubblici, conoscenza, investimenti, infrastrutture, ‘piccole opere’, ricostruzione dopo il terremoto – per 30 miliardi; di questi 15 miliardi possono essere finanziati con tagli di spese sbagliate o cancellazioni di minori entrate; gli altri possono essere finanziati in deficit o con risorse al fuori del bilancio dello stato (come le infrastrutture finanziate dal Piano Juncker, l’EFSI). Si tratta di un’iniezione di domanda pari al 2% del Pil, capace di far ripartire l’economia.
Cambiare l’Europa
Le regole dell’Unione monetaria europea e i vincoli europei sulla spesa pubblica e il debito sono sbagliati, aggravano la crisi e devono essere modificati radicalmente. Nel breve periodo occorre utilizzare tutti gli spazi disponibili per attenuare tali vincoli; nel medio periodo è necessaria una riscrittura delle regole dell’eurozona.[4] A livello europeo si devono affrontare urgentemente le seguenti questioni:
- Il rifiuto del Fiscal Compact. E’ una questione fondamentale da definirsi entro fine 2017, quando i paesi UE dovranno decidere se integrarlo nell’insieme di trattati europei. Il Fiscal Compact ha portato alla scrittura in Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio e richiede un progressivo (e insostenibile) rimborso del debito pubblico che eccede il 60% del Pil (l’Italia è ora al 135%). La sua cancellazione è condizione necessaria per avere uno spazio politico in futuro.
- Va introdotta la Golden rule, escludendo dai vincoli di spesa esistenti gli investimenti pubblici e le spese per R&S e innovazione (mantenendo invece tali vincoli per le spese militari e gli acquisti di armamenti) .
- E’ necessaria l’estensione del Piano Juncker di investimenti finanziati (in parte) e garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) attraverso il programma EFSI, indirizzando più risorse dai mercati finanziari a investimenti e infrastrutture. Tale modello va esteso alle infrastrutture sociali, come propone una Commissione creata dalle banche pubbliche d’investimento europee presieduta da Romano Prodi, e agli investimenti industriali per la ricostruzione della base produttiva nei paesi della ‘periferia’ europea più colpiti dalla crisi.
- E’ necessario congelare gli accordi di libero scambio Ceta (col Canada), Ttip (con gli Usa), Epa (col Giappone) per tutelare la base produttiva europea e lo spazio per l’intervento pubblico e le politiche economiche.
- Introduzione di una Tobin Tax incisiva che assicuri un gettito rilevante e limiti in modo drastico le speculazioni finanziarie.
- Un’ imposta unica a livello europeo sul reddito delle imprese, in modo da evitare che alcuni paesi si comportino come paradisi fiscali interni all’Unione e andare verso una più generale armonizzazione fiscale .
- Dopo gli accordi sul clima della COP21 a Parigi nel 2016 l’Europa deve avanzare proposte più avanzate con obiettivi più vincolanti per la riduzione delle emissioni di CO2 e per interventi che evitino il cambiamento climatico.
- Dopo le elezioni di Trump negli Usa e di Macron in Francia si è prospettato un asse franco-tedesco che punta a fare dell’Europa una potenza militare, capace di fare a meno, in parte, della protezione nucleare degli Usa e che vorrebbe espandere il complesso militare-industriale europeo. Questo sarebbe un grave snaturamento dell’Europa e del suo progetto di integrazione politica senza potere militare. Un’integrazione in campo militare può essere accettabile solo in una prospettiva di disarmo nucleare e convenzionale e di riduzione delle spese militari in tutti i paesi europei.
Spendere e tassare bene[5]
In Italia la spesa pubblica si avvicina agli 800 miliardi di euro l’anno e rappresenta il 45% del Pil. E’ necessario migliorarne la qualità, riducendo le spese sbagliate, le azioni che peggiorano il benessere e gli sprechi. Ricordiamo soltanto alcuni dati (relativi alle entrate fiscali sui redditi del 2010, prima dell’aggravarsi della crisi):
- su poco più di un milione di contribuenti che sono soci di società di capitali, 530 mila non pagano alcuna imposta diretta;
- su 976 mila imprenditori che fanno parte di società di persone, solo 172 mila (il 18%) dichiarano redditi superiori a 50 mila euro, mentre 146 mila dichiarano di aver subito perdite;
- su 1 milione e 920 mila imprenditori individuali, solo 135 mila (il 7%) dichiarano redditi superiori a 50 mila euro e 634 mila (il 33%) non pagano alcuna imposta diretta.
- l’80% delle entrate delle imposte dirette viene dai lavoratori dipendenti (privati o pubblici) e solo il 20% viene dai lavoratori autonomi;
- dei 21 milioni di lavoratori dipendenti che presentano una dichiarazione, 3,8 milioni hanno redditi così bassi da non pagare imposte; 10,5 milioni (il 50%) guadagnano tra 12 mila e 29 mila euro l’anno, mentre quelli che guadagnano più di 29 mila euro sono poco più di 4 milioni.
- sul totale dei lavoratori dipendenti, il 35% delle entrate viene da contribuenti con meno di 29 mila euro di reddito, mentre quelli con redditi superiori a 100 mila euro l’anno contribuiscono ad appena il 18% delle imposte dirette versate, la metà del contributo di quelli con redditi minimi.
L’ingiustizia fiscale è evidente, come lo sono sprechi e scelte sbagliate nella spesa pubblica. L’iniziativa principale su questi temi in Italia è la “controfinanziaria” della Campagna Sbilanciamoci!, che da 18 anni propone alternative per la spesa e il prelievo fiscale sulla base delle proposte delle 50 associazioni che ne fanno parte (Sbilanciamoci! 2017).
Da dove si possono prendere le risorse per una maggiore spesa pubblica? Più dalla ricchezza – finanziaria e immobiliare – i cui valori sono cresciuti molti in questi decenni, che non dai redditi, che sono andati indietro per la maggior parte degli italiani.
Perché non iniziare dai capitali esportati illegalmente? Negli anni scorsi il governo Berlusconi ha concesso lo ‘scudo fiscale’ ai capitali portati illegalmente all’estero; un’addizionale su tali fondi – che la legge ha consentito di “ripulire” – potrebbe portare diversi miliardi di euro nelle casse pubbliche. In Svizzera sono depositati 150 miliardi di euro esportati clandestinamente da italiani; la Gran Bretagna e altri paesi hanno già stabilito con la Svizzera accordi di risarcimento per l’imposizione fiscale mancata; un accordo tra Italia e Svizzera sulla loro tassazione forfettaria potrebbe portare alle finanze pubbliche diversi miliardi di euro.
Un’ulteriore possibilità è di utilizzare la Cassa Depositi e Prestiti – l’ultima banca controllata dallo stato – che gestisce in Italia i fondi EFSI del Piano Juncker per nuove infrastrutture. Tali investimenti potrebbero essere estesi (come già segnalato sopra) finanziando per diversi miliardi di euro un programma di “piccole opere” e di investimenti pubblici per gli enti locali e i servizi sociali, restando fuori dal bilancio dello stato. Sarebbe necessario tornare a una Cassa senza le banche private come azionisti e profondamente cambiata nei suoi meccanismi di gestione rispetto a oggi, facendone una holding delle partecipazioni pubbliche nelle imprese del paese, protagonista della politica industriale e degli investimenti.
Veniamo alle manovre fiscali vere e proprie. Un’imposta sulla ricchezza finanziaria con aliquote progressive potrebbe portare introiti di 10 miliardi l’anno. Queste entrate fiscali potrebbero finanziare una detassazione dei redditi da lavoro dipendente (attraverso maggiori detrazioni) per chi guadagna meno di 29 mila euro l’anno. I 16,8 milioni di contribuenti in questa categoria potrebbero ottenere un aumento del reddito disponibile di circa 600 euro l’anno per contribuente.[6] Ricordiamo che attualmente è tassato al 20% solo il flusso annuale delle rendite finanziarie (escludendo i titoli di stato), mentre l’aliquota media europea è al 23%.
Occorre inoltre rafforzare e generalizzare a livello europeo la tassazione delle transazioni finanziarie in modo da porre restrizioni delle attività speculative della finanza e generare nuove entrate fiscali.
Quanto alla ricchezza immobiliare, è necessario – ce lo chiede perfino la Commissione europea – reintrodurre la tassazione della prima casa con l’esenzione per valori catastali modesti e aliquote progressive; la tassazione attuale per le seconde e terze case può essere innalzata e resa progressiva, portando alcuni miliardi di euro nelle casse dello stato.
La ricchezza è sempre più acquisita attraverso eredità e sempre meno ottenuta accumulando risparmi. E’ diventata una forma di privilegio che aggrava le disuguaglianze di opportunità, specie se – come in Italia – la mobilità sociale è particolarmente bassa. E’ incomprensibile che, in questo contesto, nel decennio passato l’imposta sulla trasmissione di ricchezza agli eredi sia stata attenuata dai governi Prodi e Berlusconi. In molti paesi l’aumento di tale imposizione è all’ordine del giorno. E’ necessario prevedere un ritorno dell’imposta di successione, a partire dalle eredità superiori ai 200 mila euro, introducendo aliquote progressive e la possibilità di finalizzare gli introiti all’abbattimento del debito pubblico, oltre che alla riduzione delle imposte sul lavoro.
Veniamo ai redditi. La tassazione del reddito deve diventare maggiormente progressiva. Le aliquote potrebbero salire al 50% per i redditi sopra i 70 mila euro, al 60% per quelli sopra i 150 mila euro e, come in Francia, al 75% oltre il milione di euro. Contemporaneamente dovrebbe essere ridotta di due punti percentuali l’imposizione fiscale sui redditi inferiori ai 23 mila euro e andrebbe dimezzata la tassazione delle pensioni inferiori al trattamento lordo di 1000 euro mensili.
La tassazione ha anche la funzione di correggere i prezzi di mercato quando non sono in grado di riflettere i costi e benefici dell’utilizzo di beni come aria, acqua, i “servizi” prodotti dai sistemi naturali, le risorse non rinnovabili. E’ necessario introdurre e accrescere la tassazione sulle emissioni inquinanti – anidride carbonica e altri gas serra – coerentemente con gli impegni già presi dall’Italia nei trattati internazionali sul clima; va tassato maggiormente l’uso di risorse non rinnovabili. Le modalità possibili sono la “carbon tax” (già introdotta dal governo Prodi e poi cancellata dal governo Berlusconi), aliquote Iva differenziate, maggiori oneri per l’uso di risorse pubbliche. Viceversa, sono necessari incentivi fiscali per le energie rinnovabili, la mobilità sostenibile, il riciclaggio e altre attività di tutela dell’ambiente.
L’imposizione può colpire maggiormente i comportamenti con effetti sociali negativi e i consumi opulenti, e privilegiare la produzione di beni e servizi pubblici e le attività culturali. Attraverso la differenziazione delle aliquote Iva e altre misure, si può rendere più pesante la pressione fiscale sul gioco d’azzardo, sul porto d’armi, sulla pubblicità, sui diritti televisivi dello sport, etc.
Tuttavia, la forma più grave di ingiustizia fiscale resta l’evasione. Come segnalato da numerosi studi (Santoro, 2010) serve una strategia d’insieme che favorisca l’emersione delle attività “sommerse”, aumenti i vincoli ai pagamenti in contanti, i controlli incrociati tra dichiarazioni dei redditi e consumi opulenti, le valutazioni di redditi presunti su cui basare la tassazione, etc. Per le imprese occorre reintrodurre il reato di falso in bilancio e l’elenco clienti-fornitori (che permette l’incrocio dei versamenti e dell’adempimento degli obblighi fiscali) cancellato dal ministro dell’economia Giulio Tremonti, migliorare la tracciabilità dei pagamenti.
Come spendere? L’intervento più urgente è il sostegno al reddito di chi non ha lavoro, colmando la lacuna più grave del welfare italiano. Un reddito di cittadinanza per chi non lavora potrebbe evitare la caduta in condizioni di povertà, permettere una gestione meno drammatica delle situazioni di crisi e essere legato a programmi di formazione e politiche attive del lavoro. Su questo tema esiste un dibattito assai ampio, con proposte diverse (si veda Granaglia e Bolzoni, 2016; Sbilanciamoci, 2015, 2017 e il capitolo di De Marzo in questo volume). Nell’immediato è necessario estendere il reddito di inclusione introdotto dal governo (REI) a tutte le persone in condizioni di povertà.
La spesa sanitaria deve essere sostenuta in modo da tutelare il funzionamento e l’efficacia del sistema sanitario pubblico, che ha un ruolo essenziale anche nel garantire condizioni di uguaglianza ai cittadini, introducendo misure di razionalizzazione e scelte sulle priorità del servizio, limitando la crescita della spesa farmaceutica.
La spesa sociale deve tornare a crescere dopo un decennio di tagli, rifinanziando il fondo nazionale per le politiche sociali, il fondo per la non autosufficienza, il fondo per le politiche giovanili, il fondo per le politiche per la famiglia. E’ necessario introdurre i Livelli di Assistenza Sociale (Liveas) previsti dalle legge 328 del 2000 per assicurare standard minimi di servizio su tutto il territorio nazionale. Servono poi nuovi investimenti per costruire 3000 nuovi asili nido, un piano straordinario per l’housing sociale, misure per affrontare il problema della casa e degli affitti.
Un discorso particolare riguarda la spesa militare, che in Italia è rimasta intatta anche in questi anni di crisi e tagli generalizzati, a differenza del resto d’Europa.[7] Una riforma e un ridimensionamento delle forze armate potrebbero consentire ingenti risparmi di spesa; i tagli proposti da Sbilanciamoci! per il 2017 sono di 5,5 miliardi, con la fine delle missioni militari (tranne che nel Mediterraneo e in Libano), la cancellazione dell’acquisto dei caccia Usa F35 e di altri sistemi d’arma.
Con una riforma delle entrate e delle spese di questo tipo sarebbe possibile ottenere la ripresa dell’economia, una spesa pubblica di qualità e una forte riduzione delle disuguaglianze.
Che cosa e come produrre?
La produzione industriale italiana è del 20% al di sotto del livello pre-crisi del 2008; la ripresa è concentrata nelle regioni più forti del Centro-Nord. Se ripartisse la domanda senza una nuova capacità produttiva, l’effetto sarebbe un forte deficit nella bilancia commerciale, che è stato evitato finora solo per la compressione dei consumi legata all’impoverimento del paese. Una nuova politica industriale e degli investimenti potrebbe riorientare il sistema produttivo del paese verso tra aree di attività prioritarie (si veda Pianta et al, 2016, Lucchese et al., 2016).
Ambiente e energie rinnovabili. Il nuovo modello produttivo del paese deve promuovere una maggiore sostenibilità ambientale. Il paradigma tecnologico dei prossimi decenni sarà centrato sullo sviluppo di beni e metodi di produzione eco-sostenibili e a basso impatto ambientale; su processi e produzioni che sfruttano meno energia, meno risorse, meno suolo, e con un minore impatto sul clima e sugli eco-sistemi; sullo sfruttamento delle energie rinnovabili; su sistemi di trasporto che vadano oltre il predominio delle automobili, con sistemi di mobilità integrata con un impatto ambientale ridotto; sulla riparazione e sulla manutenzione di beni esistenti e di infrastrutture che proteggano la natura e la Terra (si veda Silvestrini, 2016).
Conoscenza e applicazioni delle tecnologie dell’informazione e comunicazione. L’attuale modello industriale è dominato dalla diffusione del paradigma tecnologico basato sulle tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT). L’Italia potrebbe sfruttare il potenziale applicativo delle nuove tecnologie in diversi campi – comprese le industrie tradizionali – così da ottenere guadagni di produttività e minori costi, un abbassamento significativo dei prezzi, lo sviluppo di nuovi prodotti, nonché benefici conseguibili sul piano sociale. L’ICT e le attività basate sul web stanno riscrivendo le frontiere tra la sfera economica e quella sociale, come mostra il successo dei software open source, del copyleft, di Wikipedia e del peer-to-peer. Le politiche pubbliche dovrebbero incoraggiare l’innovazione intesa come un processo sociale, cooperativo e aperto, in cui siano facilitate le regole sull’accesso e la condivisione della conoscenza, piuttosto che rinforzati i diritti di proprietà intellettuale, più efficaci nel caso di tecnologie più tradizionali. Infine, nuove regole dovrebbero essere definite per regolare l’interazione fra nuove tecnologie e lavoratori, specie nel caso delle ‘piattaforme’ digitali, proteggendo il lavoro e i diritti sociali.
Salute, welfare e attività assistenziali. L’Italia ha uno dei sistemi sanitari migliori, fondato sulla concezione della sanità come servizio pubblico. Intorno a questo sistema può crescere un insieme di attività economiche moderne – nella farmaceutica, apparecchiature elettromedicali, forniture mediche, laboratori, servizi informatici di supporto, nell’assistenza, nei servizi di welfare – caratterizzato da alti livelli di conoscenza e qualificazione. In questi ambiti si potrebbe espandere la ricerca e l’innovazione – pubblica e privata – in campo medico e biologico, nelle biotecnologie e nella strumentazione medica, nei sistemi di cura, riabilitazione e assistenza, alimentando nuove attività economiche e nuovi servizi pubblici.
Gli strumenti per una politica industriale di questo tipo sono i seguenti:
- Un programma di investimenti pubblici che forniscano infrastrutture e beni pubblici in quegli ambiti;
- Trasformazione della Cassa Depositi e Presiti in una banca pubblica d’investimento con la responsabilità di concentrare le partecipazioni azionarie pubbliche e guidare la politica industriale del paese, partecipando con quote di capitale alla creazione di nuove imprese private in settori chiave e sostenendo lo sviluppo delle imprese pubbliche esistenti
- Commesse pubbliche per imprese private le cui attività sono al centro degli obiettivi delle politiche nazionali;
- Rilancio della spesa pubblica per ricerca e sviluppo e università (in Italia il ritorno ai livelli del 2008 richiederebbe un aumento di 2 miliardi di euro) e creazione di programmi ‘Mission oriented’ finalizzati a obiettivi specifici di cambiamento tecnologico.
Interventi di questo tipo possono colmare il vuoto lasciato da decenni di ritiro dello stato dall’economia e rovesciare le priorità ora assegnate alle all’automazione estrema del programma di Industria 4.0.
Non dimentichiamo infine l’‘altraeconomia’. Commercio equo, finanza etica, agricoltura biologica, produzioni verdi, cooperative sociali, produzioni culturali, editoria alternativa, condivisione sul web sono solo alcune delle attività in cui le attività economiche si uniscono all’iniziativa della società civile. Sarebbe necessaria qui una politica che offra capitali e servizi, percorsi di formazione e professionalizzazione, domanda pubblica per produzioni e servizi locali di alta qualità ambientale e sociale; allo stesso tempo il mondo dell’”altraeconomia” dovrebbe migliorare le proprie capacità organizzative e gestionali, senza appiattirsi sulle logiche di mercato e mantenendo il radicamento sociale di queste esperienze (Marcon, 2004).
Uno sviluppo produttivo di questo tipo – insieme alla nuova spesa pubblica descritta sopra – potrebbe creare centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, affrontando i problemi di disoccupazione, precarietà, ed emigrazione (anche dei laureati) che sono diventati oggi vere e proprie emergenze nazionali (si veda il capitolo di Martelloni sulle questioni del lavoro).
Riepiloghiamo. Una politica della domanda per uscire dalla recessione, una spesa pubblica e una tassazione riqualificata, una “grande redistribuzione” che tolga ai ricchi per dare ai poveri, una riconversione ecologica del che cosa e come si produce, mettendo il lavoro al primo posto. Sono misure concrete, realistiche, urgenti per far cambiare rotta al nostro paese.