Prima o poi doveva succedere. La “bolla” della teoria della classe creativa di Richard Florida era destinata a scoppiare. La ragione è semplice: malgrado la sua apparente aderenza allo spirito del tempo nel richiamare il ruolo dei creativi (la cui definizione è sempre rimasta empiricamente fumosa e problematica) nell’innescare dinamiche virtuose di sviluppo urbano, la concezione di Florida non poteva in realtà essere più inattuale. Ciò che contraddistingue più di ogni altra cosa l’epoca contemporanea dal punto di vista della produzione di contenuti culturali è la sua ubiquità sociale. (Scopri di più su:
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La grande maggioranza delle persone ha oggi a disposizione tecnologie estremamente potenti, economiche e usabili per la produzione semi-professionale di contenuti di qualunque tipo: immagini in movimento, fisse, musica, testi multimediali, e sempre più anche videogiochi, che girano anche su dispositivi non più grandi e ingombranti di un quaderno o persino tascabili e liberano il lavoro creativo da qualunque vincolo spaziale. Con un modesto investimento economico e una sufficiente costanza nello sperimentare e nell’apprendere si può passare a un livello produttivo professionale con una rapidità un tempo impensabile, e naturalmente i contenuti prodotti possono essere distribuiti in modo sia generico che mirato con modalità impensabili prima dello sviluppo dei social media contemporanei.
In ultima analisi, quindi, così come l’avvento delle industrie culturali aveva drammaticamente espanso la dimensione dell’audience, il nuovo scenario sta invece abbattendo proprio la distinzione tra audience e creatori, aprendo la strada a nuove forme dirompenti di co-creazione collettiva che stiamo soltanto iniziando a comprendere. E’ evidente quindi come, in un simile contesto, fondare un modello di sviluppo su un dualismo tra creativi e non creativi vuol dire negare l’essenza stessa del modo in cui oggi la cultura può creare valore sociale, e in prospettiva anche economico. Tra l’altro, parlare di ‘classe creativa’ non ha molto senso nemmeno dal punto di vista sociologico visto che, come abbiamo appena osservato, ciò che evapora nel nuovo scenario è proprio la barriera costituita dall’accesso ai mezzi di produzione. Il problema del conflitto sociale si sposta semmai al livello del controllo delle piattaforme che fungono da aggregatori dei contenuti, ma questo è un altro tema.
Il principale danno del paradigma di Florida è stato quello di convincere tanti amministratori che la chiave del successo delle politiche dello sviluppo locale fosse quella di appiattirsi sulle aspettative e sulle necessità della “classe creativa”, creando di fatto le condizioni ideali per trasformare i produttori culturali in agenti, spesso involontari, di gentrificazione, ed esasperando una spesso già preesistente diffidenza delle fasce sociali più esposte ai rischi di espulsione sociale ed economica e più marginalizzate nei confronti della cultura come fattore di inclusione sociale.
Se si vuole guardare al futuro, è proprio da qui che bisogna invece ripartire: lavorare a processi partecipativi di sviluppo urbano dove quel che conta non è appunto la retorica della partecipazione – un gioco a cui sanno giocare soprattutto i più istruiti, i più garantiti, i più smaliziati nei confronti delle logiche dell’interazione sociale nello spazio pubblico – quanto piuttosto la creazione massiva di capacità proprio nelle fasce sociali più deboli e meno garantite. Ma un lavoro di questo tipo non ha bisogno di guru da jet set come Florida, la cui speaking fee per una singola apparizione costa più di un medio progetto annuale di sviluppo locale comunitario: al di là del messaggio non proprio coerente con un’idea di inclusione e di contrasto delle disuguaglianze sociali, dietro questo modus operandi si riflette una classica logica top-down che riflette una cultura di planning ormai superata. Ciò che serve invece è sperimentare processi partecipativi situati nei quali gli esperti e la comunità lavorano assieme in una prospettiva di lungo periodo, scegliendo un luogo e legandosi ad esso in un percorso di empowerment reciproco i cui effetti abilitanti emergono mano a mano col tempo, con l’emergere di percorsi sempre più concreti ed efficaci di cittadinanza attiva che la comunità locale possa personalizzare e fare propri. E la geografia di queste nuove forme di riappropriazione inclusiva della città non si limita all’Europa o al Nord America, ma assume un respiro sempre più globale. E’ da qui che si può quindi ripartire. Il momento è ancora quello giusto, e forse ora anche le idee sono un po’ meno confuse.
- Fonte: Articolo pubblicato su nòva-Il Sole 24 Ore