Come può succedere che lo stesso uomo sia considerato il padre della più limpida e celebrata democrazia della storia, un tiranno liberticida, un suadente mistificatore, o un benefattore del popolo? Basterebbero queste domande che Vincent Azoulay si pone a proposito di Pericle per avere un quadro, ancorché parziale, della complessità del potere e delle sue dinamiche, delle sue degenerazioni patologiche e delle sue possibilità. (Scopri di più su: DoppioZero.com)
Si può anche comprendere qualcosa di più del sospetto che il potere suscita e delle ragioni delle cattive forme nel suo esercizio, connesse all’attivazione intensiva di paura e desiderio, spesso in modi incontrollabili e incontrollati. Di Pericle emergono i complessi meccanismi della leadership e della costruzione del consenso nel contesto conflittuale di Atene; è possibile riconoscere le vie e il valore delle sue riforme istituzionali che fornirono un modello di democrazia che ancora oggi è di riferimento. Accanto alla capacità di realizzare il massimo grado possibile di democrazia diretta e di partecipazione pubblica, Pericle domina da solo la vita politica ateniese con una concentrazione altissima di potere nelle proprie mani. Non solo, ma mentre conduce Atene a una fioritura economica artistica e culturale che è faro dell’antichità, la trascina nella guerra del Peloponneso che si risolverà nell’annientamento della città. Non solo sono complesse le vie del potere, ma soggette a degenerazioni patologiche, a vere e proprie malattie che attraversano la vita di tutti, le realtà organizzate e le istituzioni che creiamo e in cui viviamo, e la storia in ogni periodo. Perché come scrive Giulio Busi recensendo su il Sole 24 ore del 13 agosto 2017 il libro di Bettina Stangneth su Karl Adolf Eichmann (La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, Luiss University Press, 2017): “Il male è sfrontato, tenace, vero”.

Che si esprima nella forma della verità, o nella forma della banalità, il male è il male, e il potere e il suo esercizio, sia nella microfisica delle relazioni che nella macrodimensione dei sistemi politici, ne sono una delle fonti più crude e attivanti. Nel caso emblematico di Eichmann, persino la passività esibita durante il processo di Gerusalemme appare una lucida forma studiata e praticata per perpetuare il male. In quel caso la determinazione individuale (microfisica) e la fedeltà a un contesto di dominio sterminatore (macrofisica) si sintetizzano in un percorso relazionale e individuale che ci appare agghiacciante, ma umano, profondamente umano. “Per me era del tutto indifferente dove andassero a finire gli ebrei”, dichiara Eichmann nelle conversazioni argentine con gli altri esponenti del comando nazista lì rifugiati, negli anni precedenti il suo arresto da parte del Mossad, il servizio segreto israeliano. Siamo abituati a pensare il male come concentrato solo nelle mani di chi è al vertice e come assenza e privazione. Non è difficile constatare che le cose non stanno così. Il male, almeno in potenza è in ognuno. Se il male è praticato da un essere umano, quel male è umano ed è possibile che sia praticato da ognuno. “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”, diceva il poeta latino Terenzio, ripreso da Michel de Montaigne. Il male, inoltre, non è figlio solo di ciò che non abbiamo, di qualcosa di cui siamo privi o deprivati: esiste per noi la possibilità di praticare il male per scelta, per desiderio, per piacere, così come esiste il piacere della guerra. Solo riconoscendo che possiamo essere anche questo, possiamo comprendere come fare a cercare di evitare relazioni e situazioni che fanno emergere il peggio di noi.

Quel peggio è però possibile, e solo un moralismo che non risolve nulla, anzi peggiora le cose, ci può indurre a vederla diversamente, creando prospettive speranzose e da “anime belle”. Queste ultime, peraltro, per essere definite, richiedono contemporaneamente l’ammissione dell’esistenza di anime brutte: arriviamo così ancora una volta a dividerci tra “noi” che siamo anime belle per definizione e gli “altri” che sono anime brutte per definizione o per “natura”. E la tragedia continua. Se lo stato di negazione è una condizione del male e del dominio (cfr. S. Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, 2014), è necessario non assolutizzare quella categoria, in quanto chi esercita il potere a fin di male, agisce orientato comunque ad affermare qualche progetto o proposito che dal suo punto di vista ritiene giusto.

Lo stesso Eichmann immaginava di poter essere riconosciuto come l’artefice di una missione importante per l’umanità. Una perversione, certo, ma di cui era convinto e positivo assertore. Nella dimensione microfisica del suo modo di intendere la propria missione, quello era un aspetto che è sempre comunque presente nell’orientamento di ognuno che persegue un progetto ritenendolo necessario. La differenza può essere data solo da una scelta responsabile ispirata, forse, a quello che Heinz von Foerster definiva il principio etico fondamentale: “agisci in modo da aumentare il numero delle possibilità”. Il male è comunque consapevole e la consapevolezza è sempre legata a un contesto e a orientamenti di valore contingenti e situati in un sistema di intersoggettività e molteplicità condivisa.

Era stato, da par suo, Michel Foucault, ad evidenziare la rilevanza della microfisica del potere e della dimensione relazionale mediante la quale l’esercizio del potere emerge e si afferma, nelle sue molteplici forme. È nelle pieghe intime del nostro essere intersoggettivi che si annidano le basi delle forme che il potere assume. Si tratta di dinamiche sottili e solo in parte consapevoli, di processi perlopiù inconsci, in cui ci annodiamo l’uno con l’altro, in un gioco senza fine di autonomia-dipendenza, e ci soggettiviamo assoggettandoci, come hanno rilevato studiosi come Ronald Laing e Judith Butler: “io so che tu sai che io so”; “nessun soggetto emerge senza un attaccamento intenso nei confronti di coloro dai quali dipende in modo fondamentale”.

Foucault ha posto le basi di una genealogia delle relazioni di potere che costituisce un imprescindibile punto di riferimento per ogni analisi delle dinamiche di potere, dall’espressione del possibile di e per ognuno al dominio e all’esclusione patologica e persino distruttiva.

Considerando il contributo di Wilfred R. Bion è possibile porre le basi per una lettura non superficiale delle buone e delle cattive forme dell’esercizio del potere nelle relazioni umane. Bion, infatti, identifica le cattive forme e le relative patologie del potere con le situazioni di monopolio, di dominio e di esclusione; e le buone forme con le situazioni di reciprocità, di guida e di partecipazione. Si tratta, naturalmente, di situazioni idealtipiche che si esprimono nella realtà con giochi di prevalenza e di compresenza relativa. Il carattere accomunante è comunque l’intersoggettività e la relazione di collusione e collisione tra chi domina e chi è dominato, e l’azione di chi domina non può essere considerata in modo separato da chi è dominato e si lascia dominare, come accade sempre in ogni relazione tra ogni vittima e ogni carnefice, con diversi gradi di intensità.

Se ci si chiede quale contributo le scienze del comportamento e la ricerca sull’intersoggettività umana possono dare alla comprensione delle dinamiche del potere e alle malattie connesse al suo esercizio, vi sono due poli concettuali che concorrono a cercare una risposta. Da un lato vi è la retorica del potere, con le sue manifestazioni enfatiche e la relativa carenza di esame di realtà e di corrispondenza alla realtà; dall’altro si trova l’ironia, come distacco anche divertito dalle cose, secondo il procedere speculativo e riflessivo di stampo socratico.

Imprescindibile è diventato il riferimento al paradigma intersoggettivo che assume come un paradosso concepire un “io” senza un “noi”, e contemporaneamente induce a considerare la relazione fondativa del soggetto e non viceversa. Ciò significa sostituire la cosiddetta “condotta individuale” con la relazione, come unità di analisi delle relazioni di autonomia-dipendenza e di potere. Sono la risonanza incarnata, la modulazione intenzionale e la molteplicità condivisa a fondare la soggettività di ognuno, con alla base il sistema sensori-motorio e i processi emozionali. Per comprendere qualcosa delle dinamiche di potere, insomma, appare necessario mettere in relazione quello che siamo venuti comprendendo su cosa significa essere umani, con le retoriche e le forme di esercizio del potere, nella vita di ogni giorno, nelle istituzioni, nel management e nelle situazioni di lavoro organizzato.

Proprio in queste ultime, infatti, vi sono manifestazioni che possono essere utili situazioni di analisi in cui tendono a prevalere manifestazioni diffuse di moral disengagement, secondo la definizione di Bandura (Moral Disengagement in the Perpetration of Inhumanities, Personality and Social Psychology Review 1999, Vol. 3, No. 3, 193 209); una pretesa presunzione di neutralità oggettivante di forme che invece sono storicamente e contingentemente determinate; relazioni di “cannibals with forks” (cfr. J. Elkington, Cannibals with Forks: The Triple Bottom Line of 21st Century Business, Wiley, 1997); con la diffusa compensazione della “compassion fade” (Västfjäll D., Slovic P., Mayorga M., Peters E., Compassion fade: affect and charity are greatest for a single child in need, PLoS One., che tende a neutralizzare la consapevolezza producendo assuefazione e disposizione collusiva all’accettazione dell’esistente.

Mentre si afferma, nello studio delle relazioni e del comportamento umani, la prospettiva intersoggettiva, e si propone la relazione come luogo di tutte le possibilità e di tutti i problemi, nelle prassi relazionali, in particolare nei luoghi di lavoro ma non solo, le relazioni sono sempre più spesso usate per la colonizzazione del mondo interno.

Ne derivano, ad ogni osservazione e in base a risultati di ricerche dedicate, forme patologiche di esercizio del potere che possono essere ricondotte, tra le altre, a:

- Narcisismo e insostituibilità, per cui le forme nevrotiche di esercizio del potere, mostrate a suo tempo da Manfred Kets de Vries nel suo Leader, giullari, impostori , Raffaello Cortina Editore, 1987), sembrano oggi predominare al punto da essere spesso tacitamente identificate come il modo di esercitare il potere tout-court; si pensi solo all’attributo “aggressivo” e al suo shifting semantico, da attributo disdicevole a valore positivo ricercato e fonte condivisa di reputazione e prestigio. Uno dei correlati del narcisismo riporta alla crisi o alla negazione di quello che è ritenuto, come aveva sostenuto con documentazione e cognizione di causa Francesco Novara, il tratto positivo più rilevante della leadership: la sostituibilità. Il valore precipuo più importante nell’esercizio del potere, chi lo detiene, lo mostra agendo per favorire la propria sostituibilità contribuendo ad allevare un successore.

Nella maggior parte dei casi non è così che sembrano andare le cose;

- Sindrome eroica e volgarità, con la diffusa ossessione del vincente, in ogni ambito, in modo da trasformare le relazioni in un costante gioco del vincere o perdere e con la conseguente difficoltà o incapacità a gestire ogni forma di errore o di insuccesso. In un orientamento diffuso in cui si può solo vincere, siccome perché vi sia un vincente ci vuole un perdente e siccome accade di non vincere e di perdere, oltre a ricorrere a forme spesso volgari di ricerca di affermazione di sé, accade sovente che si creino condizioni esistenziali border-line nell’esperienza personale e lavorativa. Si pensi ai linguaggi che hanno dominato e dominano la scena organizzativa, sia nelle realtà private che in quelle pubbliche, ma anche nello sport e perfino nel gioco dei bambini: le performance sono o devono essere sempre eccellenti; la qualità è e deve essere sempre totale; le azioni e le scelte sono e devono essere sempre vincenti. Tutto si configura come non perfettibile e, come tale, per sua stessa natura totalitario e, quindi, al limite della patologia o patologico, soprattutto per l’esclusione di ogni cultura e riconoscimento del limite come condizione di ogni possibilità;

- Crisi di legame e indifferenza, dinamiche diffuse che accomunano le esperienze della vita quotidiana con quelle lavorative. Se c’è un tratto che caratterizza il nostro tempo e la nostra socialità, oggi, infatti, quello è la crisi del legame sociale. Sia l’intensificazione dei contatti che la loro rarefazione, a livello reale e virtuale, producono un’estensione delle relazioni influenti e allo stesso tempo un loro deciso indebolimento. L’indifferenza si afferma come sospensione eccessiva della risonanza nel legame con gli altri, i quali con la loro presenza finiscono per non istituire una differenza nelle relazioni e nell’esperienza intersoggettiva. “Sono in regola: odio il mio prossimo come me stesso”, dice uno dei personaggi di Altan. Tutto ciò si manifesta con particolare incidenza nelle relazioni asimmetriche, quali sono le relazioni di potere;

- Rottura di contratto e negazione del conflitto, sono fenomeni congiunti che interessano il potere relazionale nel lavoro, nelle organizzazioni, nelle istituzioni e nella società. Le problematiche e le distorsioni sono dovute in particolare alla ridefinizione della natura, degli equilibri e delle asimmetrie di potere nei rapporti di lavoro e nella vita sociale. È la perdita di potere di chi offre lavoro e di chi subisce l’acuirsi delle disuguaglianze a incidere, con la corrispettiva concentrazione di potere nelle mani di una parte dominante e la conseguente emarginazione di quote sempre più ampie di popolazione. A prendere forma è una rottura del contratto sociale con poche o nulle possibilità di accedere al confronto e al conflitto, inteso come incontro tra differenze di interesse e di identità. Le patologie del potere in questo caso si presentano come ostacoli all’accesso, esclusione e negazione di diritti e di presenza e partecipazione sociale;

- Conformismo e saturazione, gli stili e i linguaggi relativi alle pratiche di potere sono fortemente standardizzati e dominati da un canone che è caratterizzato dall’unilateralità e dal dominio. In ogni ambito, dalla politica, alla finanza, all’economia, allo sport, le posizioni di potere sono espresse con un simbolismo saturo, difficilmente differenziabile, e i linguaggi utilizzati risentono di categorie ripetitive e spesso connotate da arroganza ed esibizione di forme che si pretendono originali ma risultano di fatto decisamente conformiste. I vincoli che ne derivano riguardano l’adesione acritica a modelli dominanti con elevati ostacoli all’innovazione (Su questi temi cfr. U. Morelli, Contro l’indifferenza. Possibilità creative, conformismo, saturazione, Raffaello Cortina Editore, 2013). A regolare le aspettative di chi gestisce diversi livelli di potere è l’appartenenza a gruppi di un qualche livello di esclusività, fino a configurare situazioni riconducibili a “caste” con linguaggi, stili e modi di vivere che presentano caratteri di inaccessibilità per chi non è appartenente; il blocco della mobilità sociale, infatti, è un aspetto di questa patologia del potere;

- Paura e invidia: non vedere nell’altro la propria possibilità, sono aspetti in una certa misura paradossali di una situazione in cui da un lato si scoprono l’intersoggettività e la molteplicità condivisa come fondative di ogni individuazione possibile, e dall’altro il pianeta su cui viviamo diventa un villaggio. L’avvicinamento e l’intensificazione suscitano principalmente paura e non consentono di vedere le opportunità che l’altro rappresenta. La paura tende a divenire l’emozione prevalente e una delle patologie del potere se ne alimenta e caratterizza, sia perché la paura è utilizzata come strumento di affermazione di forme di dominio e di cattura del consenso, sia perché dispone alla sudditanza chi è in cerca di qualche forma di rassicurazione. Esiste una relazione di interdipendenza tra paura e dominio nell’esercizio del potere, che favorisce l’emergere e l’affermarsi di forme patologiche;

- Psicosi da performance e gestione dell'ansia, mostrano un deficit di educazione sentimentale nei tentativi di contenere le pressioni del tempo presente, con esiti problematici in termini di disturbi psicologici dovuti principalmente alla gestione dell’ansia e alla crisi dei meccanismi di difesa. In ogni campo le aspettative di performance sono crescenti e esasperate. La tensione si genera soprattutto per la pervasività della competizione e gli stessi processi educativi sono orientati alle prestazioni più che alla crescita e all’apprendimento. Sia nelle relazioni interpersonali che nei climi organizzativi, ma anche nella società e nella vita quotidiana, questi processi danno vita a sistematiche e diffuse forme di prevaricazione, accompagnate da cadute depressive a fronte della continua presenza di compiti impossibili. Per molti aspetti questa patologia del potere si esprime come l’altra faccia della medaglia della sindrome eroica, dando vita a non minori manifestazioni di volgarità.

La retorica degenerata, come tratto distintivo delle malattie del potere e come indicatore della crisi della ragione manageriale e della governance, si connota in particolare per l’enfasi e per la incapacità di condurre un appropriato esame di realtà. Gli effetti delle forme cattive di esercizio del potere sono da considerare, tra l’altro, in rapporto ai costi che comportano. Nel momento in cui si evidenzia una stretta correlazione tra qualità delle relazioni, climi interni ai gruppi e alle istituzioni e motivazione delle persone con i relativi risultati operativi, trascurare le forme di gestione delle relazioni o, ancor più problematicamente, assistere alla affermazione di forme patogene di gestione delle relazioni asimmetriche e di potere, significa assistere a un rischio sistematico di peggioramento della qualità della vita e dei risultati, nei luoghi di lavoro e nella società.

Sottoporre a una verifica empirica i disturbi e le patologie del potere così come sono stati definiti, può voler dire metterli a confronto con le emozioni prevalenti nel corso delle loro manifestazioni. La domanda di analisi allora diventa: come agiscono i sistemi emozionali di base nell’espressione delle malattie del potere e come l’esperienza patologica del potere nelle forme individuate incide sulle dinamiche emozionali individuali e collettive?

Quello che si intende indagare, insomma, è l’incidenza che le forme disturbate di relazioni asimmetriche hanno sulle emozioni e come queste ultime agiscono nella manifestazione delle forme disturbate di esercizio del potere, sia nella vita quotidiana, che nelle organizzazioni lavorative, che nella vita politica.

Per cercare di svolgere un’analisi peraltro particolarmente impegnativa, si tratta in primo luogo, dopo aver individuato le sette aree di disturbi nell’esercizio del potere, di assumere un modello di riferimento per lo studio delle emozioni. Questo anche in considerazione del fatto che oggi, in base alle ricerche più evolute, è possibile constatare che “la divisione tra disturbi fisici ed emotivi si riduce al punto di estinguersi” (J. Panksepp, L. Biven, Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Raffaello Cortina Editore, 2014).

Quel modello, sufficientemente validato seppur con qualche differenza, e suffragato dalle ricerche e dagli studi, tra gli altri, di D. Denton, V. Gallese, A. Damasio, F. Caruana, assume che le manifestazioni emozionali a livello di comportamenti espliciti siano basate su sistemi emozionali di base, pre-intenzionali, pre-linguistici e pre-volontari, situati nell’archeologia del sistema sensori-motorio, a livello del corpo-cervello-mente. I feeling, i sentimenti con cui giungono fino a noi, regolano l’accessibilità relativa alle manifestazioni emozionali e si traducono nei nostri comportamenti. Quei sistemi emozionali sono ricondotti, con qualche differenza, a sette aree articolate, la cui complessità è elevata e differenziata, ma sufficientemente riconoscibile.

Il sistema emozionale della ricerca, comprende la disposizione alla curiosità, all’attesa, all’esercizio della capacità negativa (per usare un concetto elaborato da Wilfred R. Bion, a partire da un’intuizione del poeta John Keats, che ne aveva parlato come quella capacità di sostare nell’attesa che si creino le condizioni effettive per la realizzazione di un progetto, di un proposito, di un desiderio), all’esplorazione, al non consegnarsi all’esistente, alla tensione creativa verso ciò che ancora non c’è;
l’area della paura, riguarda l’ansia per l’incertezza, la disposizione verso il rischio, la depressione nei confronti del non determinabile, la capacità di riconoscere i limiti e di accoglierli, la prevenzione nelle scelte, l’elaborazione dell’angoscia che procurano la bellezza e la progettualità con il loro portato di vuoto e di senso di impossibilità di riuscita;
il sistema della collera, che coinvolge la rabbia, l’aggressività, ma anche l’indignazione e la reazione verso l’ingiustizia;
l’ambito del desiderio, con la ricerca del piacere, la spinta alla progettualità, il gusto, ma anche il disgusto e il rischio di dispersione, la difficoltà a controllare gli equilibri libidici e i deliri di onnipotenza;
il sistema emozionale della cura, con i portati di disposizione all’accudimento, di contenimento di sé e degli altri, ma allo stesso tempo di rischio di eccesso di protezione, di non controllo sufficiente delle proiezioni sull’altro o sugli altri e di invadenza della loro autonomia e individuazione;
l’area della giocosità, riguardante la gioia della scoperta dell’espressione di sé nell’interazione con gli altri e le cose, la manipolazione e il tocco della pelle, l’approssimazione e la socialità, ma anche il rischio della incontrollabilità della dipendenza dal gioco, con la relativa consegna alla difficoltà o incapacità a definire i confini tra gioco e realtà;
l’ambito della sofferenza, come capacità di tollerare i disagi, di contenere ed elaborare le sconfitte e le perdite, gli insuccessi e gli errori, e allo stesso tempo di vivere il dolore, di patire i problemi, di piangere e convivere con la finitudine.

Come appare evidente nessuna delle aree o sistemi emozionali può essere ridotta a dimensioni solo cosiddette “positive”, o solo cosiddette “negative”, secondo le accezioni della lingua della vita quotidiana. Non solo, ma le emozioni sentite a partire dai giacimenti profondi delle emozioni di base possono manifestarsi e di fatto si manifestano in modi prevalenti, combinati, contraddittori, conflittuali, sovrapposti, e solo in parte consapevoli e consci. L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali nella vita mentale e nell’esperienza, combina e compone in modi solo in parte palesi e governabili, fattori selezionati dall’evoluzione biologica; dinamiche intersoggettive; processi motivazionali e relazioni culturalmente e socialmente situati.

I disturbi nella vita delle relazioni asimmetriche, fino alle manifestazioni psicopatologiche nelle esperienze e nelle forme di gestione del potere coinvolgono aspetti emozionali, motivazionali e comportamentali e tendono a coincidere con la personalità in relazione, di ognuno nel gioco della vita (vedi G. Liotti, G. Fassone, F. Monticelli, a cura di, L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. Teoria, ricerca, clinica, Raffaello Cortina Editore, 2017).

Una verifica sperimentale delle interconnessioni tra le malattie del potere e i sistemi emozionali e motivazionali può consentire di comprendere qualcosa di più del ruolo dell’affettività e dei disturbi della sfera affettiva nel dar vita a forme più o meno buone o più o meno cattive nell’esercizio del potere.

L’affettività, infatti, è situata al centro dell’organizzazione neuropsichica individuale e presiede, mediante l’intersoggettività, all’individuazione e alla socialità.

Volendo specificare alcune delle emergenze riguardanti le interdipendenze complesse tra vita emozionale e motivazionale da un lato e patologie, nevrosi e psicosi nell’esercizio del potere, si possono riconoscere alcune rilevanze meritevoli di ulteriori approfondimenti.

Nelle manifestazioni di narcisismo e insostituibilità che ricorrono spesso nell’esercizio del potere, si possono ravvisare sia disturbi relativi alla ricerca, in ragione della prevalente concentrazione su stessi e all’autoreferenzialità, sia una particolare carenza di cura rivolta agli altri, che eccessi di manifestazione del desiderio in forma di autoaffermazione.

Nella sindrome eroica e nella volgarità come patologie del potere, appaiono evidenti i disturbi connessi a una negazione delle funzioni di contenimento della paura, una giocosità espressa come esasperazione del gioco “vincere o perdere”, una pervasiva presenza dell’aggressività e uno sprezzo per la vulnerabilità e la sofferenza intese solo come segni di debolezza.

Nell’indifferenza e nella crisi di legame sembrano agire soprattutto la collera, la rabbia verso gli altri, il disinteresse per la loro condizione e i loro sentimenti, ma anche la paura mista alla crisi della curiosità e della ricerca riguardo alle loro potenzialità. In particolare è la carenza di cura uno degli aspetti decisivi di questa patologia nei vissuti delle relazioni asimmetriche.

Nella negazione del conflitto e nella rottura del contratto psicologico nei processi cooperativi, è la giocosità, probabilmente, la sfera emozionale più disturbata, insieme alla paura che, esprimendosi soprattutto come ansia dell’ignoto, vincola l’accesso alle buone ragioni presenti nel punto di vista altrui.

Quando le relazioni di potere e le loro forme sono disturbate dal conformismo e dalla saturazione, a incidere sono verosimilmente la crisi della curiosità e della ricerca, ma anche i problemi connessi alla carenza di curiosità e giocosità, con lo scopo patologicamente vissuto di evitare l’incertezza e la sofferenza che la sua elaborazione comporta.

Nell’invidia e nella paura che, nelle forme di esercizio del potere, ad esempio, disturbano la pratica della ricerca per essere sostituiti e sostituibili, agiscono in modo ostacolante ovviamente la paura stessa, ma anche l’evitamento della sofferenza e della perdita che ogni delega comporta, e l’assenza di curiosità verso le differenze di cui gli altri possono essere e sono portatori.

Nella psicosi da performance e nella cattiva gestione dell’ansia, sono presenti in modo disturbato processi emozionali e affettivi che riguardano gli eccessi della ricerca e della giocosità, l’ansia che le prestazioni con obiettivi troppo elevati procurano, una funzione distorta del desiderio e forme di aggressività che sfociano in rabbia per gli eccessi nel modo di vivere la giocosità e le sue deformazioni.

A ben vedere, spesso, in queste manifestazioni delle patologie del potere, a fare difetto è l’ironia, un efficace antidoto alla retorica del potere e all’arroganza totalitaria nel suo esercizio. L’ironia, appunto, intesa come distacco di-vertito e di-vertente dalla cose e dalle situazioni, e concepita secondo il procedere speculativo socratico. L’ironia, infatti, può avere una funzione liberatoria verso il potere inteso come pratica fine a se stessa. Anche se il conformismo e l’aggressività arrogante nell’esercizio del potere sono premiate socialmente e addirittura praticate come indicazioni educative, il senso del possibile e l’innovazione si devono principalmente all’ironia sull’esistente e alla trasgressione generativa. Seguendo Alfred Jarry è possibile sostenere che “l’indisciplina cieca, di tutti gli istanti, costituisce la forza principale degli uomini liberi”.

Possono essere quegli uomini liberi, pur nei vincoli delle relazioni asimmetriche che concorrono a creare se stessi e ogni forma di legame e cooperazione sociale, a vivere il potere come ricerca del bene vicendevole. Quel bene vicendevole può prendere corpo in uno spazio relazionale che Lev Vygotskji, Pensiero e linguaggio (Laterza, 1978) ha definito “zona di sviluppo prossimale”, in cui si esprime quella attitudine precipuamente umana che Jerome Bruner, in La ricerca del significato (Bollati Boringhieri, 1992) ha chiamato “ricerca del significato”. L’esercizio del potere può essere, infatti, una continua opportunità per offrire un’impalcatura e un sostegno all’espressione dell’altro e di se stessi attraverso azioni di “scaffolding”, di “tutoring”, di “coaching”, di “counselling”. Aiutare l’altro ad aiutarsi a riuscire in ciò che l’altro non sarebbe riuscito a fare da solo è, in fondo, una delle vie migliori per aiutare se stessi e darsi potere, dandosi e dando possibilità. L’esercizio del potere come ricerca del bene vicendevole tiene in buona considerazione la vulnerabilità, intesa non solo come riconoscimento dei propri limiti e delle proprie fragilità, ma anche come vulnus, disposizione a farsi raggiungere e a contenere. Quest’ultima è la caratteristica precipua del ventre materno e, temperare l’affettività orientandola, nell’esercizio del potere, significa educarsi sentimentalmente alla pluralità dei codici affettivi. Questi ultimi sono le vie d’accesso all’affettività e un buon esercizio del potere può essere quello che mette in atto, in modo appropriato, sia codici affettivi materni che codici affettivi paterni. Il potere come sostegno alla pratica dell’espressione e della libertà è, inoltre, la condizione per la manifestazione delle possibilità della creatività umana nei contesti della vita reale. Per questo la sua espressione più compiuta ha a che fare, probabilmente con la sobrietà e l’umiltà, premesse per ogni investimento verso la sostituibilità, vero terreno di prova di una forma di esercizio del potere sufficientemente buona.

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