Andrea Segre, il cinema partecipato che mette al centro le persone. “Abbiamo una pulsione innata a difendere i bisogni contro il potere, ma se questi sono rappresentati da chi sta ai margini ci inventiamo per lui altre definizioni o, al peggio, lo ignoriamo”. Intervista al regista del film “L’ordine delle cose” sui viaggi illegali dalla Libia all’Italia, dal 7 settembre nelle sale italiane. (Scopri di più su:
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Regista di film e documentari per cinema e televisione, Andrea Segre è tra i fondatori di ZaLab, un’associazione e uno spazio partecipativo nato 11 anni fa per la produzione di documentari sociali e progetti culturali. Il protagonista del suo ultimo film –“L’ordine delle cose”, prodotto da Jolefilm- è un alto funzionario del ministero degli Interni, specializzato in missioni contro l’immigrazione irregolare, che deve confrontarsi con i viaggi illegali dalla Libia all’Italia. Presentato in anteprima alla 74esima Mostra del cinema di Venezia, il film sarà proiettato per la prima volta domani (martedì) a Padova, alle 20.30, ai giardini della rotonda in piazza Mazzini. E dal 7 settembre sarà nelle sale italiane.
Il tuo ultimo lavoro affronta la questione dell’immigrazione e la crisi d’identità dell’Europa. In che modo il vostro racconto cinematografico ci porta dentro questi temi?
AS Da diversi anni con Zalab seguiamo una direzione principale, l’idea di un cinema partecipato: in altre parole, vogliamo scoprire un punto di vista diverso dal nostro e accompagnare lo spettatore in questo cambiamento. Ne “L’ordine delle cose” abbiamo adottato lo sguardo di chi è fermamente convinto che gestire e bloccare il traffico dei migranti sia la cosa giusta da fare. Non abbiamo preso lo sguardo “cattivo” e xenofobo di alcuni -sarebbe stato troppo facile-, ma quello di chi cerca di fare questo lavoro in modo ordinato, convinto che abbia un senso. Anche questa è una strada per continuare il percorso del cinema partecipato: abbiamo conosciuto chi fa questo lavoro, li abbiamo incontrati e ci siamo confrontati con loro per allargare il nostro punto di vista. Agire questo “ordine delle cose” impone loro la regola numero uno: non conoscere mai l’altro, non considerarlo un essere umano, ma fermarsi all’indifferenza dei numeri.
Si può infrangere questa regola? Esistono delle mediazioni possibili?
AS In questi anni, scegliendo alcune parole come “rifugiato” o “richiedente asilo” per sottrarre le persone alla definizione di “profugo”, siamo entrati anche noi in un gioco ipocrita, che ha a che fare con la regola numero uno. Ovvero, sembra che ci possiamo relazionare solo con chi ha un effettivo diritto di accoglienza nel nostro Paese. Credo invece che dovremmo guardare ai bisogni delle persone e parlare di diritto alla mobilità: la possibilità di ciascuno di muoversi.
Così, entrando nell’archivio di Ibi (una donna nata in Benin e approdata a Napoli, protagonista del docufilm “Ibi”, presentato a Locarno lo scorso agosto) e dandole la voce del racconto, ho capito che il primo desiderio di un migrante che riceve un permesso di soggiorno è tornare a casa. Riprendere un moto che riduce la pressione sui Paesi d’arrivo. Quindi emerge una stranezza nel rapporto tra il “permesso di soggiorno” -ovvero, finalmente, la possibilità di stare- e la volontà di spostarsi. Le nostre definizioni ci rinchiudono in ristretti orizzonti e la mobilità è un bisogno che dobbiamo rispettare. Abbiamo una pulsione innata a difendere i bisogni contro il potere, ma se questi sono rappresentati da chi sta ai margini o non fa parte della nostra comunità, ci inventiamo per lui altre definizioni o, al peggio, lo ignoriamo.
“La risoluzione dei problemi dipende dalla nostra capacità di definirli”, si dice ne “L’ordine delle cose”. Questa ricerca passa quindi attraverso la definizione dei bisogni di chi è in movimento?
AS Fino a oggi la definizione del problema l’ha data chi sapeva che costruire un sistema securitario contro l’immigrazione e finanziare i Paesi forti di transito avrebbe rappresentato un business gigantesco. Pensiamo agli accordi con la Libia o alla costruzione di hotspot nel nord Africa o nel sud Italia, immettendo grandi quantità di denaro nelle agenzie che si occupano della loro gestione. Credo che questo tema entri nel cuore della crisi di quella che un tempo era la sinistra: chi rappresenta questi bisogni non vota, perché dovremmo ascoltarli? Sarebbe un interesse puramente etico, inutile dal punto di vista di un ritorno politico immediato. Perciò è più facile stare con il potere.
Ibi, protagonista dell’omonimo docufilm, e Swada ne “L’ordine delle cose” sono solo le ultime donne di cui racconti le storie. Quale ruolo ha il femminile nei tuoi lavori?
AS Ho raccontato molte storie di donne anche in passato (ne “Il peso dell’acqua” o “Io sono Li”, per esempio, ndr). A volte è il caso che mi ha portato da loro, ma l’aumento della presenza femminile nel corpo migrante è un dato di fatto e un segno di quanto diventi sempre più pesante il divieto di muoversi nella vita di tante persone. Prima erano gli uomini a partire; poiché nulla è cambiato, anche le donne hanno iniziato a spostarsi. Questo recente movimento femminile lascia un segno ancora più chiaro di quanto sia pesante la negazione dei diritti.
Questi tuoi ultimi due lavori sono ambientati in parte in Africa, un continente troppo spesso dimenticato.
AS Ho una certa paura del peso retorico della parola “Africa”: genera spavento, mistero e fascino e poi l’Africa non esiste in una sola parola, tanto è grande e diversa al suo interno. Per questo la generalizzazione semiotica e semantica che si tende a fare parlando di Africa mi fa paura. Racconto il mondo che conosco attraverso le nostre tensioni, indipendentemente dalle geografie a cui queste mi conducono: il centro della mia ricerca è la crisi dell’identità delle persone, che si trovano oggi a cercare una difesa in un ordine che fa male, anziché guardarsi dentro. Il tema dell’emigrazione dal nord Africa mi ha aiutato a fare questo.