Fare il cambiamento. L’anarchia come filosofia sociale. L’anarchia intesa come filosofia sociale non ha mai avuto il significato di “caos”. Gli anarchici, in genere, credevano in una società altamente organizzata, ma dal basso. […] (Scopri di più su:
Che-Fare.com)
L’idea che la gente possa essere libera fa una tremenda paura a chi detiene il potere. E questo è il motivo della pessima reputazione di cui godono gli anni sessanta. Ci sono molti libri sugli anni sessanta, scritti in prevalenza da intellettuali – sapete, sono loro quelli che scrivono i libri – e quindi il decennio ha una pessima fama, perché gli intellettuali lo detestano.
Nell’ambiente universitario tutti erano traumatizzati dall’idea che gli studenti si mettessero a fare domande invece di prendere diligentemente appunti.
Quando persone come Allan Bloom [autore di La chiusura della mente americana] lasciano intendere che negli anni sessanta sono crollate le basi della civiltà, dal loro punto di vista hanno ragione.
Le basi della civiltà, infatti, sono: «Io sono un famoso professore e vi dico cosa dire e cosa pensare, voi prendete appunti sul vostro quaderno e poi ripetete». Se qualcuno si alza e ribatte: «Non capisco perché devo leggere Platone, penso che non abbia senso», questo significa distruggere le basi della civiltà. Ma forse è una domanda perfettamente sensata, visto che già tanti filosofi se la sono posta.
Come accade in ogni movimento popolare di massa, ci sono state molte sciocchezze negli anni sessanta. Purtroppo sono sempre le uniche a passare alla storia; gli argomenti importanti, invece, ne rimangono fuori proprio a causa del loro carattere libertario tanto temuto dagli uomini di potere. […]
Ciò che secondo me dovrebbe spingere una persona a lavorare per il cambiamento sono certi princìpi che vorrebbe vedere realizzati. Può non sapere in dettaglio – nessuno di noi lo sa, credo – come possono essere messi in pratica questi princìpi in un sistema complesso come una società umana. Ma non credo che sia un problema: ciò che fai è sostenere i princìpi.
Alcuni potrebbero definire “riformismo” questo atteggiamento, ma è un modo per sminuirlo: le riforme possono essere rivoluzionarie quando vanno in una determinata direzione. E per andare in quella direzione non c’è bisogno di sapere precisamente come funzionerà la società futura, ma è sufficiente avere ben chiari i princìpi che questa dovrà realizzare. Quanto ai modi per farlo, penso che possiamo immaginarne molti. […]
E dato che nessuno conosce a sufficienza gli effetti di cambiamenti sociali di grande portata, è necessario procedere per gradi.
In effetti, io ho un atteggiamento quasi conservatore riguardo ai cambiamenti sociali: poiché abbiamo a che fare con sistemi complessi che nessuno conosce a fondo, la procedura migliore è operare alcuni cambiamenti e guardare cosa succede. E se funzionano, metterne in atto degli altri. […]
Gli stimoli devono venire dall’interno. Guardate i bambini: sono creativi e curiosi. Perché cominciano a camminare?
Prendiamo un bambino di un anno che gattona con disinvoltura da una parte all’altra della stanza, tanto che i genitori devono corrergli dietro per evitare che si faccia male con gli oggetti che riesce ad afferrare: da un giorno all’altro si alza e comincia a camminare.
Cammina in modo terribile, fa un passo e cade a faccia avanti, e se proprio vuole andare da qualche parte si rimette gattoni. Perché dunque i bambini cominciano a camminare? Semplicemente per fare una cosa nuova, è così che sono fatti gli esseri umani: vogliamo fare nuove esperienze anche se sono difficili e pericolose. E credo che sarà sempre così. […]
Credo che le persone dovrebbero vivere in una società che permetta loro di esercitare questi stimoli interiori e di sviluppare liberamente le proprie capacità, invece di essere costrette nell’esiguo numero di possibilità che sono oggi a disposizione della maggior parte di noi.
E non mi riferisco solo alle possibilità oggettive, ma anche a quelle soggettive, relative a ciò che la gente può pensare o è in grado di pensare.