Accogliere è una delle parole necessarie ad esprimere il nostro senso di responsabilità nei riguardi dell’altro, in quanto ospite e straniero, ma proprio la sua importanza la rende soggetta all’usura e all’equivoco del lessico quotidiano e della gergalità comunicativa. (Scopri di più su:
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Il Dizionario ci dice che si tratta di una derivazione dal Volgare latino: accolligere (ad+colligere). L’etimologia rivela già una duplice e contraddittoria sfumatura di significato, implicita in quel colligere: nella doppia accezione del ligare e del legere. Legare insieme (cum+ligare), stringere in un fascio, raccogliere (dalla terra o dal mare) qualcosa che vi si trova diffuso o disperso, ha un senso più fisico, materiale, meccanico. Raccogliere, adunare, scegliere, leggere (cum+legere) ha un senso più spirituale, o meglio, inter-soggettivo (collegio, collega).
La riflessione filosofica che ha meglio saputo recuperare il senso ontologico-esistenziale dell’accogliere, è offerta dal pensatore boemo Jan Patocka (1907-1977). Nella sua esemplare analisi del tema fenomenologico del mondo naturale, egli individua nell’atto di accogliere (accanto a quello di lavorare e di parlare) il primo e fondamentale luogo di sedimentazione e di stabilizzazione del movimento dell’esistenza, nel suo distaccarsi e sollevarsi sopra il livello della mera fisicità.
Se, “nella sua essenziale dimensione, la vita umana coincide con la ricerca e la scoperta dell’altro in sé e di sé nell’altro” (Jan Patocka, Il mondo naturale e la fenomenologia, a cura di A. Pantano, Mimesis, Milano 2003, p. 106), possiamo indicare nel rapporto e nel legame profondo “tra una madre e il suo bambino”, un primo accenno di “reciprocità” intersoggettiva, che si allontana definitivamente dalla “mera compresenza di due cose”. In questo senso, si può affermare che la scoperta dell’estraneo è contemporanea alla scoperta dell’ego, e la scoperta della prossimità (in senso psichico e non meramente fisico) e della distanza è l’esperienza originaria, in cui si costituisce l’idea di un mondo umano.
Con espressione poetica, in cui riecheggia il parlare profondo di Heidegger, Patocka afferma che “gli altri sono la dimora originaria e non una mera necessità esteriore; sono lo stesso nostro ancoraggio nell’esistenza, il rapporto con ciò che è già preparato per noi nel mondo, ciò che ci accoglie” (op. cit., p. 66). Questa potente suggestione dell’accogliere come preparare una dimora per l’altro, un punto provvisorio di approdo e di arresto, nell’incessante moto della vita, che rende l’esistenza umana affine alla condizione dell’esule, si trova già nella fantasia poetica dell’Occidente. Il gesto ospitale della nutrice Euriclea, nel capitolo XIX dell’Odissea (l’unica, oltre al cane Argo, a riconoscere la immutata fisionomia interiore di Ulisse), di lavare i piedi all’ospite straniero, è la prima rappresentazione dell’identità di senso tra accoglienza e riconoscimento.
Se ora, da questa sublimità di cielo (in cui, kantianamente, ritrovo alcuni punti fissi di orientamento morale) torniamo alle bassure della terra, al lessico usurato della chiacchiera comunicativa e della retorica giornalistica, fatico a ritrovare un senso non equivoco a quelle nobili espressioni. Accogliere lo straniero, cancellare i muri della differenza e della separazione, restare umani in tempi difficili (il ritornello della buona coscienza politicamente corretta) che cosa dovrebbe significare? Salvare la vita al naufrago, per poi lasciarlo al suo destino, equivale ad accogliere? Ciò vorrebbe dire che quella riservata da Polifemo ad Ulisse e ai suoi compagni sia stata, a modo suo, una forma di accoglienza.
Mandare denaro a distanza, sottoscrivere ogni appello che ci provenga dalla rete informatica della comunicazione, può essere definito accoglienza o scarico di coscienza? Partecipare a marce variopinte, in difesa della neutralità imbelle, dell’ospitalità a carico di altri, della solidarietà contro le vittime dei più vari misfatti, esotici o nostrani, è davvero fare memoria del nostro dovere e della nostra quotidiana capacità di accogliere? “Dare il cinque”, con finta giovialità, ai giovani africani che praticano l’accattonaggio ad ogni angolo o piazza della metropoli lombarda, che stazionano indolenti davanti a quasi ogni singolo bar o negozio di alimentari, significa accogliere?
Lo sappiamo, c’è differenza tra un gesto isolato di ospitalità e un impegno concreto nelle istituzioni delegate alla difesa e garanzia dei diritti umani fondamentali. Ma non ci vorrebbe anche uno sforzo di immaginazione e di metamorfosi collettiva, per ripensare le ragioni e le modalità del nostro stare insieme e di quello che pensiamo sia un vivere civile, per renderci davvero capaci di apprestare una dimora degna per l’altro?
Confesso il mio disagio quotidiano, nel percorrere a piedi la strada che conduce da casa mia al mio lavoro, nell’assistere alla scena di desolazione che si presenta nel tratto tra la Camera del Lavoro, il Tribunale di Milano, la piazzetta che fa ancora da Sagrato alla chiesa di San Pietro in Gessate. Se, dopo aver versato l’obolo, vi soffermate a scambiare due parole con coloro che pensavate di avere “accolto”, resterete probabilmente attoniti di fronte agli sguardi di avidità, diffidenza, autentico odio, che si scambiano tra loro i “miserabili” (nel significato nobile, s’intende, che abbiamo appreso da Victor Hugo).
Un nero dagli occhi umidi e febbrili, che incrociavo, tanti anni fa, in via Spadari, che continua a tendermi la mano, senza nemmeno riconoscermi, e che ha ormai capelli e barba più bianchi dei miei. Una signora alquanto dignitosa, che non chiede la carità, intenta al suo lavoro a maglia, seduta su una panchetta di pietra, ma che ostenta un cartello incitante all’odio contro lo straniero, che le contende il pane e l’abitazione. Disoccupati o inoccupati, che siedono nelle rientranze dei negozi prospicenti (anche perché, sull’imponente scalinata del restaurato palazzo CGL, che rivive i fasti architettonici del Fascio, è severamente vietato l’accattonaggio), legittimati alla sosta da un cartello, su cui è scritta a caratteri grandi la loro condizione di bisogno. Vagabondi e nomadi di provenienza varia, atteggiati nelle più antiche o reinventate pose della disperazione, della fame ormai senza parole, del gesto implorante; che sostano “invisibili” tra una moltitudine affaccendata di commessi di tribunale, avvocati, postulanti o vittime della imperante italica litigiosità.
Così come confesso il mio senso di inutilità una volta che, raggiunta l’aula universitaria, intrattengo giovani e meno giovani studenti sulla tematica economica e morale del lavoro, testi di Marx alla mano, discettando di alienazione e di disoccupazione endemica, effetto della tecnica (era più consolante, una volta, dire dell’ “uso capitalistico” delle macchine). Ma non trovo parole efficaci, per descrivere il loro probabile destino professionale, le forme con cui noi anziani abbiamo predisposto una “dimora” culturalmente solida, invece del comodo “divano” con cui li abbiamo abituati ad una vita senza scosse, priva di autentici stimoli, ma gravida di insicurezze, fragilità, nonsenso e noia. Accogliere: lo confesso, è per me una parola davvero difficile da pronunciare e dall’ambiguo significato.