Sulla malattia del lavoro che non c’è, malattia che persiste nonostante la graduale ripresa del Pil e i segnali positivi evidenziati dall’Istat, ci giochiamo il futuro del nostro Paese e la stabilità del sistema politico.
La piaga va ben oltre il pur elevato tasso di disoccupazione (elevatissimo nel Mezzogiorno e tra i giovani) e si estende in una contabilità riveduta e corretta agli scoraggiati che non cercano lavoro e agli involuntary part timers, ovvero a coloro che lavorano saltuariamente e vanno a ingrossare le file dei working poor (una categoria, inedita in passato, di persone che pur avendo formalmente un’occupazione non superano la soglia di povertà). La ferita è profonda e fa così male da produrre narrative semplicistiche e distorte sulla sua possibile soluzione.
L’opinione pubblica è alla ricerca di facili capri espiatori sperando di risolvere in un colpo solo la questione e gli untori del ventunesimo secolo sono a turno i migranti o l’euro. Difficile far capire che siamo alle prese con un problema molto più complesso generato dalla competizione globale con il lavoro a basso costo (da noi o in altri Paesi del mondo) e dall’automazione che "clessidrizzano" il mercato del lavoro assottigliando la classe media a scapito di lavori "poco qualificati" (i nuovi fattorini del digitale, i braccianti agricoli sfruttati, tutti coloro che si occupano lodevolmente di servizi alla persona) e della fascia alta delle competenze creative.
Non esiste una risposta unica, ma una serie articolata di interventi necessari. Il problema della disoccupazione è fiscale e non tecnologico. Non siamo condannati alla scarsità di lavoro perché il progresso tecnologico aumenta la ricchezza globale (attorno al 3% l’anno) e se quella ricchezza viene opportunamente tassata e redistribuita produce domanda diffusa che genera nuovi lavori. La questione della lotta all’elusione fiscale globale diventa fondamentale per arrivare a un "pagare meno pagare tutti", soprattutto all’interno dell’Unione Europea dove si domanda rigore del bilancio e ci si fa concorrenza al ribasso attraverso paradisi fiscali interni. È inoltre possibile mantenere una traiettoria di riduzione del debito (in calo dell’1% senza interventi) e giocare qualche risorsa in più sul fronte delle politiche fiscali per favorire la ripresa degli investimenti.
Con il progetto Cercatori di LavOro che porterà, a fine ottobre, alla Settimana Sociale dei cattolici di Cagliari, tanti cittadini stanno incontrando e censendo nei loro territori le migliori pratiche in materia di lavoro. Ne è nato sinora un affresco di più di 400 realtà che ci insegna moltissimo sulle vie possibili per curare la malattia del lavoro in Italia. Il nostro Paese ha due grandi frecce al proprio arco e un punto debole. La prima freccia è quella di un settore manifatturiero che ci pone al sesto posto mondiale per l’export e che, nella "fuga verso la qualità" con investimenti sulle nuove tecnologie e con politiche di internazionalizzazione, è ben attrezzato per la sfida della competitività globale e crea lavoro qualificato.
La seconda freccia è la nostra leadership mondiale nella ricchezza artistica, culturale, di biodiversità di ambienti naturali che genera un’incredibile varietà di eccellenze enogastronomiche. Con il ministero dei Beni Culturali che sta diventando progressivamente uno dei dicasteri economici più importanti del Paese. Il punto debole è la scarsa rappresentazione degli interessi delle nostre piccole imprese che rappresentano la stragrande maggioranza del tessuto produttivo. L’errore storico, anche recente, è stato quello di trascurare i problemi di questo mondo, un errore politico oltre che economico visto che parliamo di una quota assai significativa di lavoratori ed elettori.