Le organizzazioni mafiose reinvestono i capitali ottenuti illecitamente ponendosi come autentici soggetti imprenditoriali nel mercato globale. Li riutilizzano anche in attività non necessariamente criminose per mantenere il controllo del territorio e per raccogliere il consenso sociale nelle comunità di appartenenza. (Scopri di più su: Labsus.org)
Così facendo riescono, purtroppo, ad offrire risposte ai bisogni sociali come il lavoro e l’ordine urbano contrapponendosi, quindi, allo Stato che le mafie è quotidianamente chiamato a combattere. All’intimidazione, alla minaccia e all’esercizio della violenza le mafie aggiungono, allora, anche l’esercizio di politiche illegali di welfare. E con un approccio parassitario beneficiano di risorse della collettività ignorando le regole e le consuetudini della civile convivenza democratica. I beni che provengono da questa attività illecita sono quindi strumenti funzionali sia al controllo sociale sia al condizionamento economico del mercato.


Beni confiscati, beni comuni: oltre la proprietà

E’ uso diffuso considerare i beni confiscati alle mafie come beni comuni. Il linguaggio condiviso fa bene ad insistere sulla loro genesi, sul valore e sulla forza simbolica di quelle proprietà un tempo dei boss ed ora invece di tutti: ville, automobili, terreni, aziende che ora appartengono alla collettività e dunque sono di tutti e quindi beni comuni. Ma la potenza evocativa di un bene comune, si sa, va ben oltre il concetto di proprietà. Esaurire la descrizione dei beni confiscati con la frase “questo bene era dei boss ed ora è di tutti” non evidenzia appieno la sua nuova funzione ri-produttiva e ri-generativa che meglio si esplicita provando a dire che era un bene esclusivo delle organizzazioni criminali, che attraverso esso attestavano forza e potere e adesso è un bene inclusivo per tutti che può – e deve – sviluppare un modo alternativo di creare sviluppo, di stimolare cooperazione e costruire comunità alternative a quelle complici delle mafie.

Le attuali forme di riutilizzo dei beni confiscati sono possibili a seguito dell’applicazione della legge 109/96 d’iniziativa popolare promossa dall’associazione Libera che nel 1995 raccolse in tutta Italia un milione di firme per potenziare le opportunità offerte dalla legge Rognoni-La Torre 646/82, promuovendo da subito il progetto Libera Terra, dapprima nel corleonese ed espandendolo poi in tutto il Sud Italia. E allora, come considerare l’immenso patrimonio dei beni confiscati che nel frattempo nel tempo si è enormemente accresciuto partendo proprio dall’origine normativa che li regolamenta e che ritiene determinante, a ragione, la partecipazione civica? E ancora, come valorizzare il racconto delle altre esperienze virtuose di riuso sociale e produttivo e delle necessarie prospettive di loro pieno ri-utilizzo? Come innovare anche la modalità narrativa che non esaurisca in toto l’immenso portato simbolico di questi beni speciali che non sono più beni privati, e non sono propriamente beni pubblici e forse – non ancora – pienamente comuni?


Beni di tutti, beni per tutti

I beni confiscati alle mafie sono certamente risorse materiali dotate di una potente significazione immateriale. Il loro possesso da parte delle organizzazioni criminali attestava infatti la funzione di dominio che Dolci ha esplicitato come essere “un uso insalubre della forza e del potere” (Dolci 2011) nei confronti della comunità e dello spazio urbano di riferimento. Si pensi alle terre dei latifondisti mafiosi dei secoli scorsi. Il possesso di quegli appezzamenti serviva a dimostrare la capacità di dispensare lavoro e dunque opportunità di sopravvivenza per i contadini affamati dalla povertà. Una storia che si è ripetuta nei decenni e che si ripete, purtroppo, a molte latitudini e fino anche ai giorni attuali.

I beni confiscati hanno una natura posizionale, sono cioè dei beni che attestano una posizione di potere. Le ville, gli appartamenti, le imprese di questa natura sono anche beni rivali ed escludibili che postulano un portato narrativo negativo legato alla “proprietà” ed alla galassia di senso, di ideali a cui “appartengono”. Il loro possesso originario era dunque esclusivo e preclusivo ed esprimeva una subdola violenza e la capacità di appropriarsi indebitamente di ciò che è invece di e per tutti. Quando a mezzo dell’azione repressiva istituzionale quelle proprietà vengono trasferite alla pubblica utilità mutano la natura esclusiva in inclusiva diventando così beni di tutti e soprattutto per tutti. Si trasformano, pertanto, in strumenti di capacitazione (Sen 2000), di autorealizzazione, di liberazione dall’oppressiva presenza criminale. Si trasformano in beni relazionali (Donati 1991) in grado di creare, a mezzo di reti di capitale sociale, civismo diffuso, consapevole e responsabile. Affinché tutto sia possibile è necessario un loro utilizzo tangibile, manifesto. Tutto ciò al fine di testimoniare, attraverso la pubblica evidenza e la narrazione simbolica di quel ri-uso, la sconfitta (anche culturale) delle mafie e del consenso attraverso il quale le stesse esercitano il controllo.

Non è però sufficiente trasferire la proprietà e fermarsi all’atto burocratico di consegna a titolo gratuito del bene ad una cooperativa o ad un’associazione sperando che quel gesto, da solo, germini positività. E’ importante stimolare, attraverso i beni confiscati, la fattiva e quotidiana partecipazione civica di tutta la collettività e mettere a valore la collaborazione dei cittadini nella gestione cooperativa dei beni stessi.

La differenza tra i “beni di tutti” ed i “beni per tutti”, allora, non è una sottigliezza lessicale o un barocco espediente linguistico. Costituisce, invece, la necessità di considerare queste risorse come beni comuni nell’accezione ben espressa dalla Commissione Rodotà secondo cui i beni comuni sono “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”. E poiché, come recita la Costituzione è compito della Repubblica “rimuovere quegli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” la loro utilità sociale si misura soprattutto nell’atto del loro utilizzo “sociale” e nelle modalità con cui questo ri-utilizzo – sociale appunto – si avvera.

Le prassi concrete si stanno sviluppando nella direzione del paradigma dell’economia civile (Bruni, Zamagni 2015) e dunque risultano essere particolarmente focalizzate sulla cooperazione, sulla reciprocità, sull’ecologia integrale, sulla rigeneratività, sulla relazionalità e l’inclusione sociale. Per questo motivo anche i beni confiscati vanno considerati al centro di processi di rigenerazione umana ed urbana ed è possibile considerarli all’interno di un più generale cambio di paradigma culturale. Verso uno ecologico-qualitativo lungimirante che si contrappone a quello meramente economico-quantitativo. Tutto ciò presuppone piena consapevolezza intorno al valore – e soprattutto ai valori – espressi dai beni comuni, che sono beni convergenti e quindi frutto di sforzi congiunti, di policies partecipative, di modelli d’intervento innovativi che leghino corresponsabilmente, attraverso la sussidiarietà intesa come principio relazionale che lega in un’alleanza (Arena 2003) l’azione della Politica, della Pubblica amministrazione a quella della cittadinanza in ogni sua forma singola o aggregata.

L’enfasi è dunque posta sui modelli di partecipazione civica nella destinazione e nella gestione di queste strutture, nel disegno generale della loro funzione a partire dall’ascolto delle esigenze sociali della collettività (del quartiere, della borgata, del paese, della città, …) che ha “vissuto” quel bene prima e dopo la confisca e che ha il diritto/dovere di proporre, progettare e sviluppare concretamente un uso diverso dalla stagione in cui le chiavi erano in mano dei mafiosi. E’ importante attingere anche dalle virtuose esperienze di stesura ed implementazione di patti di collaborazione intorno ad altre tipologie di beni comuni (orti condivisi, scuole, strade, piazze, beni archeologici, …) e considerarli, come si sta facendo in via laboratoriale con molte Amministrazioni locali, quindi, come tessere cruciali delle città partecipate (Ciaffi, Mela 2011), di un puzzle più grande, di un mosaico fatto di tanti altri beni attraverso cui le persone vivono la quotidiana esperienza urbana; si spera presto libera dalle mafie.

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