La flessione registrata dal tasso di occupazione nel primo trimestre 2017 getta ombre sull’effettiva tenuta della ripresa occupazionale italiana. La domanda diventa allora quasi scontata: cosa si poteva fare di più, o meglio, in materia di politiche del lavoro? (Scopri di più su:
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Mentre il lavoro si conferma il grave malato di questa fase post-crisi e la politica esita – in maniera bipartisan – nel fornire letture contrapposte ai dati sull’occupazione che, come una litania, dettano i tempi di buona parte del dibattito politico, esaminare le scelte compiute in materia di politiche per il lavoro negli anni più recenti può rappresentare un esercizio utile ad avere le idee più chiare rispetto al quadro odierno.
Partiamo dalle conclusioni: la spinta che siamo riusciti a produrre per attraversare la profonda crisi occupazionale di questi anni non si è dimostrata sufficiente. In buona sostanza, ci troviamo oggi metà del guado, in attesa di capire se saremo in grado di trovare le energie necessarie per raggiungere – o più realisticamente avvicinarci – ai nostri vicini europei, che hanno compiuto la traversata, oppure se la prolungata fase in balìa della corrente ci farà perdere di vista il punto di arrivo.
Tra le tante nubi che si addensano sul lavoro, la flessione registrata dal tasso di occupazione nel primo trimestre 2017 - la terza consecutiva - getta qualche ombra sull’effettiva tenuta della ripresa occupazionale italiana: se è vero che il peggio è passato (siamo comunque 0,9 punti percentuali sopra lo stesso periodo del 2016 e piuttosto distanti dal valore minimo del primo trimestre 2014), è altrettanto vero che siamo ultimi e sempre più lontani dai nostri partner europei, nessuno dei quali ha fatto registrare tre segni negativi consecutivi. Finanche la “disastrata” Spagna, che dalla crisi è stata investita in pieno, dal 2014 ha imboccato una dinamica di ripresa ben più solida della nostra.
Porsi qualche interrogativo, dunque, è più che legittimo. E alla domanda se lo sforzo messo in campo dai vari governi che si sono succeduti in questi ultimi anni si sia dimostrato sufficientemente robusto ed efficace per rilanciare l’occupazione, la risposta è la seguente: robusto forse sì, efficace non proprio.
In questi anni il mondo del lavoro ha affrontato importanti passaggi: primo fra tutti il Jobs Act nel 2015, la riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro, le misure rivolte ai giovani, più recentemente industria 4.0 e i provvedimenti sull’alternanza scuola-lavoro. Tante le misure varate, che tuttavia hanno soltanto in parte risollevato le sorti del nostro mercato del lavoro. Si poteva fare di più? Certamente sì, soprattutto si poteva fare meglio.
Partiamo dalla spesa per le politiche del lavoro: abbiamo mobilitato dall’inizio della crisi economica una quantità di risorse eccezionale, come del resto eccezionale era la situazione che siamo stati chiamati a fronteggiare. Tra 2008 e 2015 (l’ultimo disponibile) siamo stati il Paese che ha visto crescere maggiormente le risorse impiegate, con l’ultimo dato che è superiore del 60% rispetto a quello di inizio periodo (28,9 miliardi contro 16,8). È pur vero, però, che in Italia le politiche del lavoro non hanno mai avuto grosso appeal, per lo meno in sede di attribuzione dei budget: soltanto nel 2015, infatti, e di fronte alla persistente e profonda crisi del lavoro, siamo riusciti a racimolare risorse superiori a quelle spagnole (27 miliardi), dove nel frattempo le cose sono andate progressivamente meglio che da noi. Tra 2008 e 2012 il budget italiano per le politiche del lavoro non era pari neppure al 70% di quello spagnolo, nel 2012 non arrivava all’80%, salvo poi intraprendere un lento percorsi di riavvicinamento; senza ovviamente cullare la pretesa di scomodare i nostri vicini più virtuosi, come la Francia ad esempio, che nel 2015 ha speso 65 miliardi, pur avendo un tasso di occupazione di 6,6 punti superiore al nostro. È quindi cresciuta tanto la spesa italiana per le politiche del lavoro, ma forse non abbastanza: nel 2015 abbiamo destinato, infatti, l’1,76% del Pil a questo capitolo di spesa, mentre Spagna e Francia spendono rispettivamente il 2,5% e il 3%; la prima, peraltro, tra 2009 e 2014 si è attestata stabilmente oltre il 3%, la seconda sempre al di sopra del 2,74%, mentre noi nel medesimo periodo oscillavamo tra l’1,58% e l’1,89%.
Troppo facile se fosse solo una questione di stock di risorse iniettate nel sistema: il “lavoro per il lavoro” presuppone, infatti, una strategia e quella italiana si è dimostrata peculiare, con il risultato che il tentativo di ravvivare un mercato del lavoro asfittico è solo in parte riuscito e forse qualche ragione si deve anche alle scelte adottate negli scorsi anni. Fatta 100, infatti, la spesa per le politiche pubbliche del lavoro, e al netto dell’ampia quota di spesa destinata alle politiche passive del lavoro e alla tutela dell’occupazione, messa a durissima prova dalla crisi, sul versante delle politiche attive la strategia italiana si è dimostrata decisamente troppo timida sul fronte dei servizi per il lavoro, che nel 2015 hanno assorbito appena il 2,6% della spesa totale (era l’1,7% nel 2012). Eppure, questi rappresentano l’ossatura su cui regge l’intero impianto delle politiche del lavoro, specialmente quelle attive, una sorta di front office baricentrico per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, una cabina di regia cruciale per l’implementazione delle linee strategiche. Senza braccia, del resto, le buone idee non si tramutano in buone azioni. Altra nota “dolente” è rappresentata dalle misure per autoimpiego, start up e fare impresa con tutte le misure a corredo (supporto e tutoraggio, agevolazioni, formazione), anch’esse tralasciate in questi anni (assorbono lo 0,9% delle risorse 2015, era lo 0,7% nel 2012). Di contro, enfasi e aspettative eccessive si sono riposte verso un ricorso prolungato agli incentivi alle assunzioni e in particolare le decontribuzioni, che hanno toccato l’apice nel 2015 assorbendo il 13,1% del budget per le politiche del lavoro, ma già nel 2012 ricevevano il 9,5%. Dal confronto con i nostri vicini, peraltro, non si riscontrano valori simili: la Spagna destina non più del 2,6% delle risorse per le politiche del lavoro a questa misura e anche nel 2012, quando il mercato del lavoro spagnolo era in forte difficoltà, non si andava oltre il 4,7%.
Se il resto d’Europa ha fatto scelte diverse e può oggi vantare un quadro occupazionale decisamente migliore del nostro, forse hanno avuto ragione i policy makers degli altri Paesi, ovviamente al netto delle peculiarità nazionali e di tutti gli altri fattori che influenzano il mercato del lavoro (dagli investimenti alle politiche fiscali, dalle politiche industriali al sistema formativo ecc.). La scelta nell’allocazione delle risorse disponibili ha dunque contribuito a determinare il quadro attuale: se da noi gli incentivi alle assunzioni, nella veste di decontribuzioni per le assunzioni hanno fatto il pieno di consensi e di risorse, altrove non si sono trascurati i servizi per il lavoro, che noi invece abbiamo recuperato soltanto nell’ultima fase con la neonata ANPAL, oggi alle prese con la sfida di rivitalizzare la rete dei centri per l’impiego e di tutto il network di attori coinvolti nelle politiche attive del lavoro e della formazione. Se altrove si è guardato con maggiore attenzione al funzionamento del mercato, si sono oliati gli ingranaggi tra domanda e offerta, si sono rinforzate (e non solo a livello di personale) le strutture preposte a prendere in carico sia i potenziali lavoratori, attraverso adeguata formazione, orientamento, empowerment, anche favorendo i primi contatti col mondo del lavoro già nel corso dei cicli formativi, sia riattivando quanti troppo presto si sono chiamati fuori dal mercato, noi ci stiamo muovendo su questi fronti con netto ritardo.
L’auspicio è che il tempo, una volta tanto, non sia così tiranno e che di energie residue per completare il guado ve ne siano ancora.