Il complesso di servizi sociali, educativi, sanitari assomiglia sempre più a un’infrastruttura digitale. Che abilita la relazionalità e libera i codici sorgente. (Scopri di più su:
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- Di Paolo Venturi, Flaviano Zandonai
Distribuito e connesso. A ben guardare il welfare di oggi, quello dei servizi sociali, educativi, sanitari, assomiglia sempre più a un’infrastruttura digitale. Iniziative di protezione sociale sorgono, sempre più spesso, a ridosso dei luoghi di vita delle persone e delle comunità: in aziende e spazi di coworking, nei centri culturali, sportivi, turistici, in casa e nei quartieri fino alle comunità delle aree interne. Questo florilegio risponde a un’esigenza di rigenerazione che muove in senso biunivoco. Per un verso consente di ridisegnare i servizi di welfare rendendoli meno autoreferenziali e più inclusivi e per un altro riconosce in modo esplicito il contributo del welfare alla coesione sociale e allo sviluppo economico su base locale.
Il digitale, in questa trasformazione ormai inesorabile perché legata non solo alla crisi di risorse dei modelli di welfare tradizionali ma alla trasformazione profonda della domanda, è sempre meno un supporto e sempre più, nei fatti, una componente strutturale. La sua evoluzione recente come piattaforma che amplifica la connettività e abilita la relazionalità tra gli attori a vario titolo coinvolti consente anche di gestire sistemi di welfare sempre più distribuiti ed embedded nella società e nell’economia. Come nel caso, ad esempio, del progetto Familylike, cofinanziato nell’ambito della linea di intervento “welfare in azione” di Fondazione Cariplo, che si basa su una mappatura estesa e pervasiva di servizi di terziario sociale a misura di famiglia nell’area del nord Novarese. Iniziativa in sé non nuova, ma che progettata e messa in opera come piattaforma digitale consente di approfondire la rilevazione, intrecciandola con il classico lavoro sul territorio, e insieme di scalarla una volta che questa sperimentazione locale sarà a regime.
Questa attenzione a mappare il carattere distribuito del welfare non deriva solo dalla necessità di elaborarne una rappresentazione per esigenze di advocacy rispetto ai bisogni emergenti. E’ un passaggio fondamentale anche per gestire la crescente connettività abilitata da queste infrastrutture e animata dal basso da un nuovo ciclo di partecipazione sociale. Connettività che può seguire strade diverse. La prima è quella di gestire processi di coproduzione dei servizi in una fase in cui si evidenzia un “divide” crescente tra offerta istituzionale (pubblica e privata, in particolare nonprofit) e offerta autoprodotta da cittadini singoli e associati anche nel campo del welfare.
In questo senso la cultura, profondamente digitale, di liberare il codice sorgente dei servizi rendendoli patrimonio comune rappresenta una modalità interessante di possibile conciliazione per ridefinire “l’interesse generale” dei servizi di welfare, come nel caso di Hackability che mette a disposizione in open source il suo service model di coproduzione tra maker, operatori sociali, persone con disabilità per la costruzione di tecnologie a favore di questi ultimi.
La seconda strada della connettività riguarda l’allestimento di veri e propri marketplace digitali che siano in grado non solo di limitare, ma di superare uno dei classici dilemmi del welfare ovvero l’asimmetria informativa tra produttore e fruitore. Se fino a qualche tempo fa il digitale veniva considerato un fattore di incremento dell’asimmetria oggi si possono utilizzare tecnologie ormai mature di natura conversazionale e informativa (chatbot, ect.) che ormai sono, o dovrebbero essere, da considerare come veri e propri servizi sociali.
La terza pista per gestire il welfare come infrastruttura digitale riguarda le competenze di management del sistema. Se è vero che, come sperimentato dal progetto “Milano Sei l’Altro”, i community manager del welfare hanno già spostato il baricentro analogico della loro operatività da sportelli e strutture di servizio a bar, portinerie, quartieri, territori trasformando gli spazi commerciali in luoghi ibridi, è evidente che la loro capacità è sempre più legata alla gestione di comunità capaci di riconoscersi attraverso strumenti digitali che innescano i due pilastri del community building ovvero prossimità – sempre più legata alla condivisione di obiettivi progettuali – e mutuo riconoscimento derivante dall’impatto sociale generato in termini di ben-essere e crescita.