Nel dibattito corrente sulla “crisi della democrazia” emerge un certo interesse verso l’idea che una possibile risposta, a fronte del logoramento dei modelli tradizionali del “governare” e del “decidere”, possa e debba cercare delle vie innovative. Non sempre, tuttavia, alle diagnosi più o meno preoccupate segue un’adeguata riflessione sulle “terapie”. (Scopri di più su:
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- Antonio Floridia. Responsabile “delle Politiche per la partecipazione” della Regione Toscana
Una delle risposte che molto spesso viene evocata, e in molti casi anche in modo piuttosto generico, è quella che evoca una maggiore “partecipazione” dei cittadini, o un loro maggiore “coinvolgimento”: ma cosa si intende esattamente? Su cosa si fonda l’idea che una maggiore “partecipazione” produca decisioni “migliori”? E quali sono i “modelli partecipativi” a cui è possibile fare riferimento? Sullo sfondo di questi interrogativi, si profilano anche questioni di grande interesse teorico e politico, che possiamo riassumere in questi termini: quali sono gli esatti confini concettuali dei vari “aggettivi” che vengono solitamente abbinati al termine “democrazia” (rappresentativa, diretta, partecipativa, deliberativa…)?
Le forme della partecipazione
“Partecipazione” è termine assai ampio e sfuggente, che copre molti fenomeni: possiamo distinguere gli ambiti in cui si partecipa (economico, sociale, politico, ecc.) e le forme con cui ciò avviene. Qui vorremmo concentrarci su quest’ultimo punto. E un possibile schema interpretativo che ci può aiutare è quello di immaginare le forme della partecipazione lungo un continuum: ad un estremo, possiamo collocare tutte quelle pratiche partecipative fondate su atteggiamenti e motivazioni conflittuali e antagonistiche; all’estremo opposto, quelle pratiche partecipative che si fondano invece su motivazioni solidaristiche e cooperative.
Naturalmente, si tratta di due modelli ideal-tipici: nella realtà, si possono rinvenire molte situazioni ibride. Le pratiche conflittuali possono produrre, o richiedere anche, pratiche solidali; le pratiche cooperative possono esprimersi, o esigere anche, momenti altamente conflittuali. E, in mezzo, abbiamo le varie espressioni del “partecipare”: la protesta, la rivendicazione, l’advocacy, ecc. E tutte possono implicare, in varia misura, una dimensione che è propriamente definibile come “deliberativa”: ossia, la dimensione del dialogo pubblico, dello scambio argomentativo, della ricerca discorsiva di “buone ragioni” nell’affrontare e cercare di risolvere un problema collettivo.
Sono ben note le forme che può assumere una concezione e una prassi esclusivamente conflittuale della partecipazione: a noi qui interessa sottolineare che esse, in genere, tendono a cristallizzarsi in un “gioco a somma zero”… si vince o si perde… Il conflitto è il sale della politica, ma non tutti i conflitti sono produttivi e, soprattutto, non tutti i modi di gestirli e di viverli sono positivi, se ci poniamo il problema di una più alta qualità della nostra democrazia.
Partecipazione e beni comuni
Forse anche per la crescente consapevolezza dei limiti di questa idea antagonistica della partecipazione, e per una certa stanchezza delle pratiche che ad essa si ispirano, sta emergendo e si sta affermando un’altra visione, quella che possiamo ricondurre all’altro polo del nostro continuum: un’idea solidaristica e cooperativa della partecipazione. Il nucleo di questa idea va colto in due elementi, che non possono andare disgiunti (se non a costo di alcuni gravi equivoci politici e concettuali): nel principio di auto-organizzazione della cittadinanza attiva e in una visione cooperativa e condivisa (non sostitutiva o surrogatoria) del rapporto tra cittadinanza attiva e amministrazione pubblica.
Secondo questo modello, i cittadini si organizzano (e discutono tra loro: in questo vi è un elemento dialogico e deliberativo) per affrontare e risolvere alcuni problemi della loro comune convivenza sociale, per curare e gestire dei beni comuni (si badi: non beni pubblici) e, in definitiva, per promuovere forme di auto-organizzazione della società civile che sottraggano alcune sfere delle loro forme di vita sociale al “potere” e al dominio di “logiche” esterne e incontrollabili, siano esse economiche o tecnocratiche. Una società, certamente, si “tiene insieme”, e non deflagra nel caos, perché esistono e funzionano logiche e sistemi di integrazione istituzionale e politica; ma una società “non regge” se si inaridisce o, peggio, viene del tutto a mancare, un tessuto di integrazione sociale e comunicativa.
La “solidarietà” non è (solo) un nobile sentimento morale: è un fattore essenziale di costruzione di quelle relazioni sociali e intersoggettive che solo consentono ad una società di definirsi tale: che impediscono, cioè, l’affermarsi nella realtà di un’idea di società (che ha trovato e trova molti cantori entusiasti) come mero aggregato di individui isolati e atomizzati, portatori di diritti pre-politici, che chiedano alla dimensione pubblica solo la “protezione” della loro azione individuale tesa a massimizzare il proprio self-interest.
Le esperienze che si possono ricondurre ad un’idea solidaristica e cooperativa della partecipazione si moltiplicano e sono molte variegate, e non sempre le pratiche sono sorrette da un’adeguata consapevolezza teorica di quel che si sta facendo: si “fanno” e si “sanno fare” delle cose (know how), ma non sempre si sa quel che si sta facendo (know that). Ma non ci si deve sorprendere di questo possibile scarto: anzi, è proprio da questo divario (in linea di principio mai pienamente superabile) che si alimenta un circuito virtuoso di verifica e di sperimentazione, di apprendimento collettivo, di crescita della consapevolezza collettiva.
Per approfondire: A. Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia, Il Mulino, 2017