Un mio vecchio professore di Filosofia, Enzo Paci, aveva inaugurato sulla sua famosa rivista “aut aut”, una rubrica fissa intitolata Il senso delle parole. Più tardi, l’editore Bompiani ha ripubblicato come volume autonomo i testi di quella rubrica, facendone una sorta di Dizionario di filosofia, concepito in forma di Diario filosofico. Ma, accanto a questo prevalente uso accademico e scopo pedagogico (per il quale il testo di Paci non ha del resto esaurito la sua attualità) la pratica filosofica, inaugurata dal filosofo milanese con quella rubrica, potrebbe significare per noi oggi un valido esempio ed un monito a pensare il tempo presente con una più lucida consapevolezza della nostra responsabilità morale (che ha preso il posto della antiquata e ambigua nozione di responsabilità intellettuale). (Scopri di più su:
Gariwo.net)
La Carta delle responsabilità 2017 – che è stata recentemente proposta come felice provocazione alla società civile e al mondo della cultura milanese dalla Associazione Gariwo: la foresta dei giusti – mi pare contenere una indicazione che va nella stessa direzione. Come noto, il modello cui tale proposta civile si rifà è la celebre Charta 77 del dissenso cecoslovacco.
Potrebbe suonare un riferimento pretenzioso e persino arrogante. Stiamo parlando delle sofferte esperienze di un ceto politico e professionale perseguitato dal comunismo sovietico, nel passaggio dalla guerra fredda a una ritrovata unità occidentale e liberale; che cosa hanno a che fare con le più modeste e un po’ rituali pratiche di Memoria, a cui l'attuale ceto politico, in evidente deficit di consenso democratico e popolare, ha deciso di adeguarsi in una sorta di nuovo conformismo della correttezza e del galateo etico-politico?
Ho parlato di "felice provocazione" non a caso. Ritengo infatti che l’intento originario dei proponenti e dei primi sottoscrittori della Carta milanese non fosse meramente quello di inseguire un facile unanimismo e un'adulazione nei confronti del potere democratico-progressista, in nome della consolante ed ecumenica definizione di Giusto (in cui solo gli stolti o i barbari rifiutano di riconoscersi, rivendicando la diversa primogenitura del "padrone in casa propria"). Ma ci sono in effetti parole che – come per incanto – uniscono e parole, più difficili da pronunciare, che dividono. La retorica dell'accoglienza e dell’inesistenza dei muri che dividono, mentre i ponti – per definizione – uniscono e consentono un agevole transito, è pronta ad accettare, nel proprio lessico, la definizione di Giusto. Ancora più aperte sono le nostre laiche orecchie alla solidarietà, all'umanità, alla diversità come ricchezza; piuttosto che alla sopportazione, alla pazienza o alla poco amichevole tolleranza. Ma suoneranno cacofoniche e decisamente inurbane parole difficili o equivoche, come incomunicabilità, anomia, sacrificio, martirio.
Eppure il giusto è fondamentalmente un testimone e, dunque, (con parola antica) un martire. Ma la parola martirio è troppo compromessa con la fede religiosa e dunque pericolosamente divisiva. Ammettiamo pure che il Papa cattolico definisca martiri i copti assassinati da predoni del deserto, mascherati sotto le false insegne di un Islam pervertito e illegittimo. Ma fatichiamo a considerare tali le vittime casuali e involontarie del terrorismo jiahdista nelle nostre città ospitali. Testimoni di che: del nostro privilegiato way of life?
Sarebbe come voler chiamare testimoni dei Diritti (anche se qualcuno ancora indulge in questa pigra abitudine) gli agguerriti pensionati della CGIL, pronti a scambiare per disonesto lucro padronale innocui (per quanto male usati) voucher di lavoro temporaneo. O come chiamare testimoni di una eterna Resistenza gli intrusi (ma tollerati) energumeni, che si preparano alle manifestazioni del 25 aprile solo per urlare il loro odio antigiudaico ai partigiani della Brigata ebraica (come, nella mia improvvida giovinezza, fischiavamo contenti i partigiani democristiani e laici, sfoggiando fazzoletti rossi non sempre meritati).
La prima responsabilità che cerchiamo quotidianamente di esercitare deve essere rivolta al senso delle parole che utilizziamo, sforzandoci di farle rientrare in un senso comune, dialogico e aperto, ma non per questo meno dialettico e talvolta persino aporetico. In altre parole, non dobbiamo rimuovere dal nostro linguaggio le parole che sentiamo troppo gravate dal peso dei giudizi morali diversi dai nostri ed estranei. La questione religiosa, che oggi drammaticamente si presenta anche nella forma del conflitto e della guerra in nome del "sangue" e della "terra" (accanto a quello, più rassicurante, del dialogo tra le fedi e dell'accettazione del diverso), non può restare estranea alla buona coscienza laica, ma deve inquietarla e diventare anche per lei pietra di scandalo.
- *Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale all'Università degli Studi di Milano