Dietro a una banale finestra rotta c’è un intero mondo di riflessioni e di analisi che afferiscono all’urbanistica, all’economia e al modo stesso in cui noi ci relazioniamo con la nostra idea di società. Ripercorrerle brevemente può aiutarci a comprendere come la fragilità dovrebbe essere considerata come un bene da tutelare, piuttosto che come un punto debole del sistema. (Scopri di più su:
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Di Alessandro Ravera*. L’articolo è apparso sul numero 3 di Stagioni – Autunno 2014 – Fragilità
La vista per strada di una finestra rotta è sempre perturbante, specie se le condizioni generali dell'edificio in cui si trova non sono granché buone. Vandalismo, abbandono, degrado... le impressioni di un vetro andato in frantumi non sono mai positive: se per una convenzione (radicata già nei disegni dei bambini) le finestre sono gli “occhi” delle case, un vetro rotto fa quasi pensare ad un'orbita vuota.
In effetti, al di là dell'essere o meno gli “occhi” degli edifici, le finestre sono quel punto delicato di una costruzione in cui “dentro” e “fuori” vengono a contatto; luce, aria e vista vengono filtrati dall'interno manovrando quella che è una sorta di “macchina” che regola il rapporto con l'esterno secondo modalità assai più articolate del semplice “aperto/chiuso” delle porte: proprio questa necessità di “trasparenza” costringe all'uso di parti fragili ed è in corrispondenza di questa “membrana” che il dentro e il fuori stanno in equilibrio. Un vetro rotto significa che tale equilibrio si è evidentemente spezzato, con tutto quel che ne consegue: sia che si tratti di un'abitazione, sia che si tratti di un esercizio commerciale o di un laboratorio artigiano, un vetro rotto è avvertito come un segno di crisi, tanto dagli interessati quanto dagli occasionali spettatori.
Forse è proprio a causa di questa forte componente emotiva che vetri e finestre rotte hanno finito per entrare esplicitamente nella letteratura specialistica di economisti e sociologi in due esempi che tuttavia non sembrano avere nient'altro in comune: né il tempo, né il luogo e nemmeno il campo d'azione; solo il fatto di ruotare attorno a un vetro che si rompe.
Il primo è dovuto alla penna di Frédéric Bastiat, autore ottocentesco definito come “il più brillante giornalista economico che ci sia mai stato” nientemeno che da Schumpeter: uno dei suoi articoli, scritti in forma di parabola, tratta appunto dell'accidentale rottura di una vetrina da parte del figlio di un negoziante. Mentre il padre è comprensibilmente contrariato nei confronti della goffaggine del figlio, i passanti lo invitano a considerare l'incidente come un'opportunità: il vetraio avrà lavoro, il negozio avrà un vetro nuovo e l'economia del paese ne avrà giovato: “Sono questi incidenti che mandano avanti l'economia” dice uno degli astanti “Che ne sarebbe dei vetrai, se nessuno rompesse i vetri?”. Bastiat non è per nulla convinto dal ragionamento: è vero che il vetraio è contento dell'incidente, ma l'importo speso per sostituire la vetrina avrebbe potuto essere impiegato in altri modi, ad esempio comprando un paio di scarpe, e il negoziante si sarebbe trovato con una vetrina e un paio di scarpe invece che con una vetrina e basta.
Si tratta di un semplice aforisma e come tale dev'essere considerato (sempre Schumpeter aggiungeva che era inutile vedere nei racconti di Bastiat una qualche teoria), moltissimi fattori vengono semplificati o nemmeno presi in considerazione, eppure il racconto contiene un'indubbia dose di fascino che si mantiene inalterata anche ai nostri giorni: meglio non giudicare affrettatamente l'obsolescenza materiale o funzionale degli oggetti senza aver prima fatto una sera analisi comparativa dei costi e dei benefici che comporterebbero eventuali interventi di sostituzione.
Ma c'è un'altra cosa significativa nel racconto: la sostituzione della vetrina è data per scontata; forzando un po' il racconto si potrebbe aggiungere che il negoziante preferirebbe andare in giro con le scarpe sfondate piuttosto che tenersi la vetrina rotta. Bastiat scrive attorno al 1850: la sua Parigi è ancora quella dei porticati settecenteschi o dei primi passages coperti e nessuno si immagina le enormi vetrine dei Grands Magasins; per il negoziante, l'integrità della vetrina è qualcosa di intrinseco al buon nome dell'attività. Ma spostando in avanti la vicenda di mezzo secolo, potremmo immaginare un negoziante il cui giro d'affari si sia drammaticamente contratto per i più svariati motivi, magari perché i suoi clienti abituali adesso preferiscono spostarsi in carrozza e pertanto hanno iniziato a gravitare attorno ai boulevards; se il costo di sostituzione si rivelasse alto, potrebbe scegliere di rabberciare la vetrina alla buona servendosi di carta o addirittura di chiudere l'attività.
Spostandoci ulteriormente nel tempo e nello spazio arriviamo così alla definizione della così detta “Teoria delle finestre rotte”, esposta per la prima volta nel 1982 da due criminologi americani, George Kelling e James Wilson, a quanto pare poi confermata “sul campo” da ricercatori dell'Università di Groninga guidati da Kees Keizer che hanno pubblicato il risultato dei loro esperimenti su un numero di Science del 2008.
Secondo Kelling e Wilson, “se in un palazzo una finestra rotta non viene riparata, la gente a cui piace rompere le finestre assumerà che a nessuno importa di quel palazzo. Altre finestre verranno rotte, con il disordine che eventualmente diverrà crimine vero e proprio”, secondo una specie di “road map all'incontrario” il cui meccanismo è stato ulteriormente chiarito da Keizer: “Abbiamo osservato che le persone che vedono violare determinate regole o norme sociali, tendono a violarne anche altre portando ad un generale aumento del degrado”.
Negli anni Novanta la Teoria delle finestre rotte è stata utilizzata per giustificare l'applicazione intransigente di politiche repressive nei confronti de “la gente a cui piace rompere le finestre”: il caso più noto è senz'altro la politica della “Tolleranza Zero” adottata dal sindaco di New York Rudolph Giuliani nel corso del suo mandato. I risultati rimangono estremamente controversi; come spesso accade nelle vicende urbane, amministratori e opinione pubblica tendono a scambiare sintomi e cause, finendo per trovare nei comportamenti devianti un facile capro espiatorio onnicomprensivo mentre il problema è a monte: nel caso specifico, consiste nel fatto che dietro a una finestra rotta c'è generalmente un appartamento o un negozio vuoto, e la questione finisce per afferire più alla sfera dell'economia che a quella dell'ordine pubblico.
Non è facile rendersi conto del cambio di paradigma che comportano questo genere di ragionamenti: la correlazione tra proprietà vuote o abbandonate e comportamenti criminali (che allo stato attuale delle cose sembra essere quella parte della “Teoria delle finestre rotte” che trova un'effettiva verifica empirica) anche se ci appare quasi banale, contrasta con convinzioni radicate secondo cui la criminalità attecchisce soprattutto nelle aree sovrappopolate.
Per quasi un secolo, la ricerca urbanistica e l'edilizia corrente si sono occupate prevalentemente di diminuire la pressione abitativa all'interno dei nuclei urbani tanto per motivi igienico-sanitari quanto per questioni di ordine pubblico legate alla criminalità, ma non solo: il filosofo Marshall Berman nel suo L'esperienza della modernità (1982) aveva sintetizzato provocatoriamente il modernismo urbanistico dicendo che se le rivoluzioni erano fatte da persone che scendevano in piazza o per strada, agli urbanisti bastava eliminare piazze e strade per pensare di aver risolto il problema, ma così non era. Criminalità e degrado erano frutto di un disordine che la città moderna non solo non aveva soffocato, ma forse aveva addirittura fomentato: le finestre rotte citate da Kelling e Wilson in quello stesso anno erano spia di un disagio che non si poteva combattere con metodi repressivi.
Giunti a questo punto, vale la pena fare un passo indietro nel tempo, ritornando al 1961, anno di pubblicazione di un grande classico degli studi urbani: Vita e morte delle grandi città di Jane Jacobs. Scrive la Jacobs: “La prima cosa da capire è che l'ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria (…). Il secondo punto da tener presente è che il problema della sicurezza non si risolve accentuando la dispersione degli abitanti, sostituendo cioè al carattere urbano quello tipico del suburbio (…). I negozianti e gli altri piccoli esercenti sono per natura fautori della tranquillità e dell'ordine; detestano i vetri rotti, le rapine, i clienti resi nervosi dall'insicurezza. Se abbastanza numerosi, essi sono i migliori custodi di una strada”
Il negoziante che detesta i vetri rotti potrebbe ricordare da vicino il protagonista del racconto di Bastiat: conscio di rivestire una funzione quasi “pubblica” si fa carico di mantenere un ordine “a bassa intensità” di cui lo stato delle vetrine è parte integrante; significativamente questo ruolo non viene ricoperto né dalla figura troppo istituzionale (e, in tutti i sensi, “grave”) del poliziotto, né da quella del residente, generalmente portato a percepire gli estranei come “invasori”. In Voglia di comunità scritto da Zygmunt Bauman nel 2000 (dal significativo sottotitolo Seeking Safety in an insicure World) troviamo questa efficace descrizione: “la comunità vista come un esercito di guardiani armati che controllano l'ingresso; predatori e cacciatori all'agguato, in sostituzione della figura premoderna dell'orco del “mobile vulgus” (…) ridurre gli spazi pubblici a enclave, “difendibili” con accesso selezionato; separazione, anziché contrattazione, della vita in comune”; se i quartieri monofunzionali tipici dell'urbanistica modernista rispondono perfettamente a questa descrizione, la “strada” descritta da Jane Jacobs è una comunità affatto diversa, dove la figura semileggendaria del “guardiano” è incarnata dall'agente per eccellenza della contrattazione: quel commerciante che - necessariamente – è portato a vedere nell'estraneo un potenziale cliente prima ancora che una minaccia.
Tirando le fila degli esempi descritti, è possibile vedere come la fragilità delle finestre sia stata vista, nel corso degli anni, come metafora e simbolo della fragilità di un intero mondo di relazioni: per Bastiat di un'economia in continua trasformazione; per Kelling e Wilson di una società tendente sempre di più allo sfilacciamento e per Jane Jacobs di una rete di rapporti umani la cui portata è nettamente superiore alla semplice somma delle parti. Le conclusioni che si possono trarre, per quanto forzatamente semplicistiche, sono molto interessanti: nel distruggere si perde comunque sempre qualcosa; la distruzione delle cose fragili tende a propagarsi più facilmente di quanto non si creda; la migliore tutela della fragilità non consiste tanto in un bagaglio inflessibile di sanzioni, quanto nella tutela della diversità economica e sociale di quel paradossale “ecosistema” costituito dalle strade urbane.
Si tratta di riflessioni che hanno una fortissima componente pratica: salvaguardare la sicurezza mediante una rigorosa scansione funzionale delle destinazioni d'uso di un quartiere o di una strada non ha molto più senso che realizzare edifici assolutamente privi di finestre (o totalmente finestrati, secondo un modello che - significativamente – va per la maggiore nella progettazione dei grandi centri commerciali); alla prova dei fatti, queste esperienze si sono rivelate veri e propri “anti-pattern” (per usare una terminologia desunta dall'informatica) i cui effetti sulla compagine urbana sono spesso stati deleteri, non diversamente dalla gran parte delle motorways o dei grandi complessi cintati monofunzionali, tutti quegli elementi, cioè, tesi a suburbanizzare il tessuto urbano.
Proprio Jane Jacobs, nei primi capitoli del suo libro, stigmatizzava questa situazione, sottolineando come determinati vecchi quartieri apparentemente disagiati si dimostrassero in grado di rispondere a sollecitazioni critiche assai più dei grandi complessi modernisti (e le vicende urbane degli anni Settanta e Ottanta avrebbero finito per darle completamente ragione): tutelare la fragilità della finestra dà migliori risultati che proteggerla con un'inferriata; la complessa rete di relazioni sottesa da una strada o dalla vetrina di un negozio non viene salvaguardata semplicemente ingabbiandola.
Ormai da molti anni, l'atteggiamento di sociologi e urbanisti nei confronti del degrado è decisamente cambiato; il contesto operativo è drammaticamente mutato con la comparsa di fenomeni a mala pena intuibili nel corso del XX secolo (uno su tutti lo “shrinkage” demografico, con molte città che perdono abitanti mentre il complesso della popolazione urbana aumenta). La distruzione di interi quartieri in nome del rinnovamento urbano è vista come un terribile spreco (Bastiat ne sarebbe stato contento) mentre si guarda con maggiore attenzione alle caratteristiche dei tessuti storici, anche in assenza di particolari elementi di pregio, quegli stessi quartieri che, fino a pochi decenni addietro, erano visti come generatori di degrado. Le pietre scartate dai costruttori, verrebbe da dire, stanno diventando testate d'angolo; altrimenti qualcuno finirà per scagliarle contro un vetro.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Il racconto di Bastiat è facilmente disponibile in rete in lingua originale; una recente traduzione in lingua italiana si trova in L. Priori Friggi, Ricominciare da Bastiat, Microinet, 2011; ugualmente disponibile in rete è l'articolo Broken Windows di Kelling e Wilson, originariamente apparso sul numero del marzo 1982 del The Atlantic Monthly, mentre i risultati della sperimentazione “sul campo” fatta in Olanda sono stati pubblicati sul numero del dicembre 2008 di Science. Vita e morte delle grandi città, apparso originariamente nel 1961 e tradotto per la prima volta in Italia nel 1969 è stato ripubblicato nella Piccola Biblioteca Einaudi nel 2009, mentre L'esperienza della modernità, pubblicato originariamente nel 1982, è stato ripubblicato da Il Mulino nel 1999. La bibliografia su Jane Jacobs è, naturalmente, assai ampia, ma ai fini delle tematiche trattate nell'articolo sono interessanti A. Flint, Wrestling with Moses, Random House, 2011 e R. Brandes Gratz, The Battle for Gotham, Nation Books, 2011, centrati sulla lotta “titanica” tra due concezioni della città egualmente significative (Robert Moses, il “deuteragonista” della Jacobs, era a tutti gli effetti un “eroe” dell'epopea del New Deal, mentre la Jacobs una fragile studiosa, persino un po' radical chic). Infine, sul fenomeno dello City Shrinkage contemporaneo, il libro di Alessandro Coppola Apocalypse Town , Laterza 2012, costituisce uno dei primi interventi italiani su un tema di attualità scottante, mentre l’idea di applicare anche all’urbanistica il concetto informatico di “antipattern” è dell’arch. Giovanna Piga della University of Kent.
*Alessandro Ravera è nato a Milano il 28 luglio 1969 e si è laureato in architettura a Genova con una tesi sui rapporti tra dinamiche urbanistiche e immaginario collettivo. Si è occupato prevalentemente del campo degli studi urbani, collaborando al corso di Storia dell’Architettura contemporanea della facoltà di Architettura di Genova e partecipando a diverse conferenze e incontri in Italia e all’estero (Iuav, McGill, Chaminade, Rutgers, Rochester). Come redattore freelance ha collaborato con diverse testate, occupandosi principalmente di storia, filosofia ed economia: tra i suoi ultimi lavori ha scritto le biografie intellettuali di James Tobin, Milton Friedman, Amartya Sen e Joseph Stiglitz per Il Sole 24 ore. È membro della redazione di Stagioni.