Conflitti ambientali e comunità resistenti sono espressioni tra loro interdipendenti. Un intreccio che si nutre grazie all’opposizione al modello delle grandi opere, ai meccanismi di devastazione ambientale e paesaggistica, ma soprattutto che ci parla di alternative vere all’attuale governance dei nostri territori. (Scopri di più su:
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Le grandi opere sono da sempre state il bancomat del capitale e delle mafie e, oggi più di ieri, producono disgregazione sociale e distruzione dell’idea stessa di comunità. La conferenza tenutasi oggi all’OltrEconomia Festival, moderata da Riccardo Bottazzo (direttore di EcoMagazine), ha messo in luce come in Italia, da Nord a Sud, ci siano tante esperienze in grado di mettere in crisi questo modello, socializzando un bagaglio di lotte e di esperienze.
Le battaglie contro il Tav in Valsusa sono forse l’esempio più noto di lotte che sono state capaci di costruire un immaginario vincente. Nicoletta Dosio, storica attivista valsusina, ha spiegato come nella valle piemontese si siano espresse con la massima violenza le logiche di chi ha sempre anteposto il profitto alla salvaguardia di un patrimonio naturale, di bellezza e di storia. Questa tipologia di sfruttamento del mondo ci pone di fronte ad un aut aut: stare dalla parte di chi devasta ed opprime o ribellarci a tutto questo.
La Val di Susa ha una lunga storia di resistenza che proviene dalla lotta partigiana, che ha plasmato uomini e donne che vivevano su quelle montagne. Negli anni ’80 ci sono state altre lotte in Val di Susa contro le “maleopere”, quella contro l’autostrada e quella contro l’elettrodotto. La questione dell’Alta Velocità inizia a diventare pressante con la nascita dell’Europa “di Maastricht”, quando la velocità dello scambio di merci diviene elemento fondamentale del nascente neoliberismo europeo. Strumenti principali di questa lotta sono stati da un lato la volontà di non delegare, dall’altro la capacità di organizzarsi assieme ad altre realtà che lottavano nelle valli vicine, o in quelle transalpine, contro la medesima opera.
La repressione del movimento NoTav è andata di pari passo con lo sviluppo di questa lotta. «Noi non ci siamo mai pianti addosso su questo, perché abbiamo subito capito che la repressione è anche il segno che la lotta incide». Il movimento è riuscito a contrastare sempre la furia repressiva attraverso due modi: innanzitutto rivendicando collettivamente la capacità di opporre legittimità a legalità, in secondo luogo rifiutando sempre e divisioni tra “pratiche buone e pratiche cattive”. «La loro repressione, fatta di accuse assurde come quella di terrorismo, di misure preventive, non ci spaventa perché abbiamo imparato a disobbedire, come ho fatto io. Ma questo è potuto accadere perché esiste un movimento vero, centinaia di uomini e donne pronti in ogni momento a fare da muro e da scudo nei confronti di chi ha deciso di non accettare le decisioni della magistratura, della Questura e della politica, ma anche migliaia di solidali nel resto d’Italia è del mondo». Continua la Dosio: «La nostra paura e la nostra sottomissione è la loro forza, ma quando decidiamo insieme di dire “no”, in tante forme, loro diventano più deboli».
Il caso di Napoli rappresenta in questo momento uno degli esempi più clamorosi di “rottura” rispetto ai modelli tradizionali di governance e gestione dei territori. Una rottura che si sta dando in termini complessi, in cui l’esperienza neo-municipalista di De Magistris si intreccia con un aumento della capacità aggregativa e radicale dei movimenti sociali. Eleonora De Majo, attivista di Insurgencia e consigliera comunale della lista DemA, ha provato a sintetizzare la complessità di questo processo.
«L’anomalia napoletana non si può capire se non la si colloca nel tessuto di lotte, sedimentatosi negli anni, generate dal fatto che la Campania è stata l’avamposto dell’opposizione al modello di commissariamento straordinario del territorio, che va avanti almeno dalla gestione dell’emergenza post-terremoto del 1980». In Campania la governance ha sperimentato la normazione dell’emergenza ed il ciclo di lotte sulla questione dei rifiuti ha iniziato a sovvertire questa tendenza storica, in cui il rapporto tra camorra, ceti imprenditoriali e classe politica è emerso in tutta la sua evidenza. Quando i movimenti per la giustizia ambientale e contro il biocidio sono arrivati al massimo della loro forza sono arrivate le elezioni amministrative del 2011, in cui attorno alla figura di De Magistris si sono concentrate tante forze che hanno visto nella lotta ai modelli politici tradizionali un importante punto di svolta. «Le città ribelli esistono se esistono i ribelli nelle città» afferma la De Majo, soffermandosi sul fatto che le trasformazioni reali nei processi di governo delle città non si possono fare in vitro, ma avvengono solo quando è l’intero corpo sociale a pensare ed agire in termini rivoluzionari.
Dalla Campania al Veneto, da molti considerato la “Terra dei Fuochi del Nord”, le questioni “ambientali” si impongono come elemento strutturale della vita delle persone e delle comunità. Giuliana Marchi, della comunità contro Valdastico Nord (Alto Vicentino), ha spiegato come la fabbrica di grandi opere in Veneto stia provando a sostituirsi a quel modello economico basato su industrializzazione capillare e cementificazione selvaggia, fallito con la crisi economica.
L’autostrada A31 Valdastico mostra in maniera lampante come le concessioni autostradali rappresentino una vera e propria gallina dalle uova d’oro, perché consentono alle imprese coinvolte, italiane e straniere, di garantirsi utili per un periodo di tempo molto ampio. Il tutto avviene all’interno di una produzione continua di debito, che socializza i costi di costruzione e di gestione. La questione finanziaria rappresenta dunque l’altra faccia della medaglia delle devastazioni ambientali.
La commistione tra saperi tecnici messi in comune e l’organizzazione di pratiche e processi conflittuali sono l’unico modo per costruire forme di opposizione efficaci a tutto questo. Per riuscire a realizzarla occorre ripensare la soggettività che si oppone alla grande opera «Abbiamo scelto di staccarci dal vecchio modello del “comitato ambientale”, il cui limite è stato spesso quello di essere una sommatoria di individualità che non lo portava al di là dell’istanza localista, per sperimentare una forma di organizzazione tenuta insieme dal superamento di un intero modello di sviluppo». Proprio per unirsi ad altre esperienze che si oppongono alle grandi opere, all’inquinamento selvaggio ed alla depauperazione dei territori, le realtà che lottano contro la Valdastico promuovono un campeggio di lotta contro le grandi opere, aperto a tutte le realtà nazionali ed internazionali, che si terrà proprio nei pressi del tracciato dove sorgeranno i cantieri della Valdastico Nord.